M.D.
numero 15, 2 maggio 2007
Pratica
medica
Da una strana lombalgia alla diagnosi di carcinoma
polmonare
di Nicola Cortese - Medico di medicina generale, Vibo Valentia,
AIMEF
Un paziente di 56 anni, di professione muratore, nel settembre
2006 venne in ambulatorio per un fastidioso e insistente
mal di schiena che, a suo dire, era stato provocato da una
banale caduta durante il lavoro. Dopo avere raccolto notizie
anamnestiche e averlo visitato, gli prescrissi una terapia
antalgica per via iniettiva. Trascorsa qualche settimana
il paziente tornò ancora visibilmente sofferente,
riferendo che inizialmente i sintomi erano regrediti, ma
che successivamente la sintomatologia algica si era ripresentata. |
Storia clinica
Per
diversi anni il paziente ha sofferto di una forma severa di
psoriasi diffusa, trattata con calcipotriolo e clobetasolo per
uso topico. Inoltre ha alle spalle una lunga storia di tabagismo
ed etilismo con sindrome da dipendenza alcolica ed epatopatia
cronica steatosica che ha richiesto diversi ricoveri. Nel tempo
ha presentato anche un quadro di dislipidemia mista con prevalente
ipertrigliceridemia da eccesso di alcol. Dopo essere uscito
dalla dipendenza, nel volgere di breve tempo si era presentata
una sindrome ansiosa-depressiva reattiva che ho trattato con
ansiolitici e paroxetina.
Visita ambulatoriale
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Esame
obiettivo: il paziente lamenta marcata sintomatologia algica
in regione lombare, con irradiazione allarto inferiore
sinistro. È evidente una limitazione ai movimenti di
flesso-estensione del rachide e un segno Lasegue positivo
a sinistra e una lieve riduzione dei riflessi osteotendinei
omolaterali. Apparentemente non è presente una riduzione
della sensibilità superficiale e profonda.
Constatata la severità del dolore prescrivo terapia
con meloxicam e tiocolchicoside per via iniettiva per qualche
giorno, pregandolo di ritornare non appena terminato il trattamento,
anche per prescrivere eventualmente altre indagini.
Dopo
una settimana il paziente torna vistosamente sofferente: la
terapia a cui si è sottoposto aveva dato qualche risultato,
ma poi la sintomatologia si è ripresentata con maggiore
determinazione.
Dopo averlo nuovamente visitato e non avere riscontrando nulla
di nuovo prescrivo in aggiunta alla precedente terapia betametasone
4 mg bis/die con il metodo a scalare per qualche altro giorno.
Inizia ad insidiarsi il sospetto diagnostico di una probabile
patologia erniaria e gli suggerisco di eseguire una radiografia
del rachide lombosacrale e una RMN allo stesso segmento.
A distanza di una decina di giorni rivedo in ambulatorio il
paziente, che lamenta la persistenza del dolore, anche se di
grado di severità inferiore a quello descritto in precedenza.
Il quadro clinico non torna, considerando che non può
essere assolutamente normale un dolore che dura per così
lungo tempo e soprattutto che non risponde ai Fans e agli steroidi
ad alte dosi.
Resto in attesa di visionare gli esami: un pomeriggio il paziente
viene in ambulatorio con il referto della RMN, che leggo con
stupore misto a consapevolezza.
-
RMN:
presenza di area francamente ipointensa in T1 che interessa
il soma di S1 e S2, espressione di sostituzione midollare
da verosimile lesione secondaria. Il muro posteriore di S1
protrude nel canale spinale con impronta sul sacco durale
e sulle emergenze radicolari S1 e S2. Si rileva anche la presenza
di un altro focolaio a carico del corpo di L2.
Contatto
immediatamente un collega specialista e predispongo il ricovero
presso la divisione di Medicina Interna del nosocomio della città
per ulteriori e approfonditi accertamenti.
Prima diagnosi
In ospedale vengono eseguita diverse indagini, tra cui:
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radiografia
del torace: negativa;
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ecografia
delladdome: sostanzialemente negativa, a parte una steatosi
epatica con lesione angiomatosa di scarsa rilevanza clinica;
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colonscopia:
negativa;
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esami
ematochimici: lieve rialzo del CEA (24.7, vn <5), fosfatasi
alcalina 95, LDH (1234), funzionalità epatica con enzimi
di colestasi (gammaGT) lievemente alterati da evidente natura
alcolica.
Il
paziente viene dimesso con diagnosino di epatopatia cronica
alcolica, bronchite cronica, angioma epatico, spondiloartrosi
con lombosciatalgia e con il suggerimento di effettuare una
scintigrafia ossea.
Nel frattempo penso alle possibili cause e non riesco a trovarne
alcuna plausibile che possa determinare le sospette metastasi
vertebrali, analizzando esclusivamente lanamnesi in cui
è evidente solo la storia di etilismo e tabagismo (che
però depone a suo sfavore).
Dopo alcuni giorni il paziente si ripresenta con lesito
della scintigrafia.
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Scintigrafia
ossea total body: aree di patologico focale accumulo scheletrico
nella II costola, nella teca cranica, nellala iliaca
destra, nella sincondrosi sacro-iliaca omolaterale e nel segmento
prossimale del femore sinistro. Tale quadro è espressione
di atipico rimaneggiamento osteoblastico (lesioni secondarie?).
Nel
frattempo i sintomi dolorosi si sono fatti più insistenti.
Per sedarli prescrivo fentanil per via transdermica 50 mcg che
in seguito aumento a 75 mcg, con discreti risultati.
Ulteriori indagini e ragionamento clinico
Rifletto, cercando di ipotizzare le possibili cause di secondarismi
ossei.
Escludo una neoplasia primitiva prostatica, perché
lecografia prostata transrettale che ho suggerito di eseguire
è risultata negativa, così come il PSA (libero
e totale).
Escludo anche un tumore epatico e pancreatico, in quanto
lecografia delladdome effettuata in regime di ricovero
era risultata sostanzialmente negativa.
Non prendo in considerazione il mieloma
multiplo, perché le analisi (proteinuria di Bence Jones,
quadro sieroproteico, beta-2 microglobulina, VES, emocromo,
ecc) sono risultate negative.
Le caratteristiche evidenti alla scintigrafia ossea di
lesione osteoblastica escludono anche un possibile sarcoma primitivo
osseo (seppur raro), perché caratterizzato da lesioni
osteclastiche.
Non resta che il carcinoma polmonare e il microcitoma,
ma la radiografia del torace eseguita in ospedale è risultata
negativa. Ma proprio questo referto è quello che non
mi ha convinto: alcune volte nel corso della professione ho
riscontrato che lesioni primitive polmonari non erano evidenti
al radiogramma e sono risultate poi visibili alla TAC.
Diagnosi definitiva
Siamo a novembre e per non perdere tempo prezioso dispongo un
nuovo ricovero presso il Dipartimento di medicina interna dellospedale
di Tropea dove è operativo un ambulatorio di oncologia.
Dopo diversi giorni il paziente viene dimesso con la diagnosi
di tumore polmonare e metastasi ossee diffuse.
Le indagini ematochimiche di rilievo hanno evidenziato solo
CA 15-3 pari a 159 e VES 31.
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TAC
total body con e senza mdc: presenza di processo neoformativo
del segmento S6 del lobo inferiore del polmone sinistro con
interessamento del bronco segmentale B6 cospicuamente ridotto
di calibro e ispessimento pleurico attiguo; allencefalo
e alladdome superiore e inferiore non si evidenziano
ulteriori lesioni, ma si confermano plurime localizzazioni
osse secondarie (ala iliaca destra, sacro e alcune coste).
Il
paziente viene immediatamente sottoposto a trattamento chemioterapico
in attesa della stadiazione, della valutazione chirurgica e
dellinquadramento istologico.
Ripercorro la storia clinica del mio paziente e al fatto che non
ha mai lamentato alcuna sintomatologia respiratoria (tosse,
dispnea, toraco-algia, emottisi) che potesse richiamare una
lesione primitiva polmonare. Il dolore riferito era lunico
sintomo presente, evidentemente subdolo segno di metastasi
già in fase avanzata di una neoplasia primitiva.
Decorso clinico
Nel giro di pochi giorni il paziente viene allettato non solo
per una recrudescenza del dolore osseo, ma anche per linstaurarsi
di una marcata dispnea specie a riposo da insufficienza respiratoria,
che ho trattato con ossigenoterapia.
Una mattina mi reco al domicilio del paziente. Lo visito accuratamente
e constato che le sue condizioni generali sono stazionarie e,
benché sofferente, è lucido e in grado di mantenere
ancora una discreta autonomia nei movimenti e nella deambulazione.
Mi soffermo per parlare con luino cercando di rincuorarlo e dargli
un supporto psicologico, convincendolo che questa poteva essere
unennesima battaglia da vincere.
Dopo due giorni (siamo in dicembre 2006) giunge la telefonata
dei familiari: mi comunicano che il paziente è deceduto.
Conclusioni
Si stima che in Italia lincidenza del carcinoma polmonare
negli uomini passa da 4.7/100.000 abitanti lanno tra
i 0-44 anni a 201/100.000 abitanti fra 45-64 anni fino a 418/100.000
abitanti oltre i 65 anni. La prognosi è piuttosto infausta
e non ha subito cambiamenti significativi negli ultimi anni con
una sopravvivenza globale a 5 anni <10%. Ciò è
dovuto al fatto che la neoplasia viene diagnosticata spesso
quando è già disseminata e la terapia risulta
quindi di scarsa efficacia; inoltre, quando non trattato, il
carcinoma polmonare ha unevoluzione molto rapida con
una sopravvivenza media per i vari istotipi tra le 6 e le 13 settimane.
Sono rimasto impotente e sconcertato dalla rapida evoluzione della
malattia nel mio paziente. Nel volgere di poco meno di quattro
mesi il carcinoma lo ha portato allexitus, anche
se è stato trattato con cicli massicci di chemioterapia
che avrebbero dovuto o potuto garantirgli, quanto meno, una più
lunga sopravvivenza. Inoltre le sue condizioni cliniche fino
allultimo giorno erano discrete, non aveva deperimento
organico o cachessia e le funzioni vitali erano buone. Sono
convinto che il suo improvviso decesso sia da imputare a unembolia
polmonare massiva o a un accidente cerebro-vascolare conseguente
a un processo flebitico agli arti inferiori esitato poi in una
TVP, ma naturalmente è solo unipotesi dettata dal
semplice ragionamento clinico.
Questa esperienza mi ha fatto riflettere ancora una volta sul
fatto che noi medici di famiglia abbiamo il dovere di usare le
armi a nostra disposizione: la prevenzione per diminuire la
mortalità per carcinoma broncopolmonare, vista la difficoltà
di formulare una diagnosi precoce e di ottenere una percentuale
accettabile di guarigioni, associando il nostro acume o meglio
locchio clinico, guadagnato in tanti anni di esperienza
vissuta sul campo, che sovente risulta essere efficace e fruttuoso,
in quanto siamo noi, come medici della persona, possiamo conoscere
il paziente nella sua interezza.
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