M.D. numero 1, 24 gennaio 2007

Ricerche
Medicina di famiglia e sindrome metabolica: confronto tra le diverse definizioni
di Massimo Bisconcin - Medico di medicina generale, Quarto D’Altino (VE), Responsabile Dipartimento di Ricerca e Sperimentazione AIMEF e Ugo Mario Padovan - Medico con formazione specifica in Medicina Generale, Quarto D’Altino (VE)

L’indagine ha valutato l’impatto della sindrome metabolica in una popolazione afferente alla Medicina Generale, confrontando i criteri dell’International Diabetes Federation e del NCEP Adult Treatment Panel III. L’impatto epidemiologico con la classificazione della IDF è allarmante: la prevalenza della sindrome verrebbe addirittura raddoppiata, rispetto alla classificazione ATP III. Il dibattito sui risultati è ancora oggetto di discussione, ma per gli autori la discriminante è racchiusa nella peculiarità della MdF, che anche per la sindrome metabolica non può essere solo biomedica, ma bio-psico-sociale

All’interno della comunità scientifica internazionale e nazionale, il dibattito attorno alla sindrome metabolica (SM) è abbastanza serrato. La SM viene spesso presentata sia come dato di fatto - considerandola una patologia esistente invece di un gruppo di fattori di rischio - sia con una sorta di equivoco di fondo relativamente alla sua definizione. Infatti, considerando quanto autorevolmente è stato pubblicato sin dal 1999 sulla SM, si possono enucleare almeno tre definizioni che presentano caratteristiche relativamente diverse l’una all’altra.
Le tre definizioni sono sicuramente simili e non certo antitetiche, ma nell’ambito della Medicina Generale pongono senza dubbio dei quesiti, primo fra tutti quello della soglia.
È ben vero che nell’ultimo lustro molte “soglie” sono state abbattute: alcune per comprovata inaffidabilità (per esempio il valore del colesterolo LDL nei pazienti affetti da diabete mellito), altre perché qualitativamente superate, come la diversa concezione che ormai si sta consolidando sul concetto di rischio cardiovascolare (si considera globalmente la galassia dei fattori di rischio più che il singolo valore numerico di uno di essi).
L’OMS ha proposto una definizione operativa di sindrome metabolica (WHO, 1999). Questa considera l’iperglicemia, fino alla diagnosi di diabete mellito conclamato, e si basa sull’interazione tra questo dismetabolismo e la presenza contemporanea di almeno due dei seguenti altri fattori di rischio cardiovascolare: ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia e/o basso colesterolo HDL, obesità centrale e/o BMI elevato, microalbuminuria (tabella 1).
Nel 2001, il Third Report of the National Cholesterol Education Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Cholesterol in Adults (NCEP Adult Treatment Panel III – ATP III), ha fornito una diversa definizione (NCEP, 2001), meglio utilizzabile per rilevazioni epidemiologiche o screening su popolazioni e che utilizzava dati clinici e antropometrici. L’ATP III tentò di facilitare la diagnosi di SM, evitando la necessità di identificare un disordine prevalente: tutti i soggetti sospettati di sindrome metabolica avrebbero dovuto presentare, variamente combinati, almeno tre dei fattori di rischio cardiovascolare indicati in tabella 2.
Probabilmente questa definizione raggruppa i soggetti in modo più eterogeneo di quella dell’OMS, ma risulta più pratica e adattabile alle esigenze cliniche. Se i criteri dell’OMS richiedono la presenza di insulino-resistenza o diabete mellito, l’ATP III, secondo un’ottica di costo-beneficio, afferma che l’informazione ottenuta con il test da carico orale non giustifica la sua applicazione routinaria.
Entrambe le classificazioni riconoscono comunque la malattia cardiovascolare come outcome principale della sindrome metabolica e concordano su alcune componenti essenziali, ma differiscono nei dettagli e su diversi criteri (Hunt, 2004).
Nel 2005 un gruppo di esperti della International Diabetes Federation (IDF, 2005) ha prodotto una nuova definizione della sindrome metabolica che presenta sostanziali variazioni rispetto a quelle dell’OMS e dell’ATP III (Alberti, 2005):

  • il valore soglia di glicemia viene ridotto a 100 mg/dL (contro i 110 mg/dL dell’ATP III);
  • la soglia della circonferenza addominale viene ridotta a 94-80 cm (maschio-femmina) contro i 102-88 cm dell’ATP III;
  • viene introdotta una variabile qualitativa come la presenza di un trattamento farmacologico già in atto con antipertensivi o con ipolipemizzanti o ipoglicemizzanti.
La tabella 3 riassume le differenze tra le tre definizioni.
In realtà esistono anche dei cosiddetti fattori correttivi ”etnici” (WHO, 2004), opportuni e necessari considerando la progressiva globalizzazione dei contatti medici dovuta all’alta mobilità della popolazione mondiale, ma essi riguardano il solo parametro dell’obesità centrale (tabella 4).
La IDF Consensus Conference di Berlino (IDF, 2005) ha definito la circonferenza addominale come conditio sine qua non per porre diagnosi di sindrome metabolica.
Quest’ultima definizione si propone lo scopo di fornire degli strumenti atti a identificare più rapidamente tutti i soggetti a rischio di attacco cardiaco, diabete, ictus, in ogni nazione e per ogni gruppo etnico. Secondo l’IDF infatti un quarto degli adulti del mondo industrializzato avrebbe la sindrome metabolica e coloro che presentano questo quadro clinico avrebbero il doppio di possibilità di morire (e il triplo di soffrire) per attacco cardiaco o ictus rispetto alla popolazione che ne è esente.

La sindrome metabolica in MdF


Secondo i dati epidemiologici raccolti da Health Search (Giampaoli, 2002) nella popolazione italiana si riscontrano i seguenti dati:
  • prevalenza del 31% dell’ipertensione arteriosa;
  • il 9% degli uomini e il 6% delle donne è diabetico (glicemia „126 mg/dL);
  • il 9% degli uomini e il 5% delle donne hanno un’alterata tolleranza al glucosio (glicemia compresa fra 110 e 125 mg/dL);
  • la glicemia media a digiuno è 93 mg/dL per gli uomini e 87 mg/dL per le donne.
La sindrome metabolica appare quindi come una seria “pandemia”, con le premesse sia di una sostanziale sovrastima del problema (che praticamente coinvolgerebbe, applicando i criteri IDF, quasi tutta la popolazione) sia di un forte ruolo anche epistemologico della medicina di famiglia nel “governo” di questa sindrome.
Il lavoro che segue ha unicamente la finalità di testare l’impatto classificativo ed epidemiologico delle più recenti proposte classificative.

Descrizione dello studio


Hanno partecipato allo studio nove Mmg operanti in diverse realtà socio-geografiche.
Nel mese di settembre 2005 ai primi 10 pazienti di ogni giorno, per cinque giorni consecutivi di una settimana, è stata effettuata la misurazione della circonferenza addominale operata in piedi, ad addome nudo e a livello della linea ombelicale traversa. Integrazione mediante Excel del parametro predetto con i valori di glicemia a digiuno,
trigliceridi, colesterolo HDL, pressione arteriosa omerale, con eventuale correzione per gruppi etnici. Sono stati complessivamente arruolati 448 soggetti.
In tabella 5 sono riassunti i dati principali della popolazione studiata e in tabella 6 i dati riguardo all’età.
La tabella 7 indica i dati riassuntivi riguardo la circonferenza addominale misurata nei pazienti osservati: quasi la metà dei pazienti presenta “obesità centrale” secondo i criteri per la sindrome metabolica. Le tabelle 8 e 9 riassumono i dati di trigliceridemia e colesterolo HDL.
La tabella 10 mostra i valori della glicemia: si noti come quasi i due terzi delle persone coinvolte abbia una glicemia >100 mg/dL.
La tabella 11 riassume i valori di pressione arteriosa rilevati durante la visita medica.

Risultati


La tabella 12 riassume i risultati dello studio. Nella colonna a sinistra è indicato il numero di persone (del campione) con sindrome metabolica secondo la classificazione dell’IDF, mentre nella colonna a destra, sempre nel medesimo campione, vengono conteggiate le persone con sindrome metabolica classificata secondo l’ATP III.
Indubbiamente, in questo campione di persone sottoposte a osservazione, la classificazione dell’International Diabetes Federation praticamente raddoppia la prevalenza della sindrome metabolica in medicina di famiglia, restringendo notevolmente la forbice tra i “malati” e i “sani” rispetto alla classificazione ATP III (figura 1).

Discussione


Questa indagine preliminare indica in termini quantitativi quale sarebbe l’impatto epidemiologico (e conseguentemente decisionale) che avrebbe l’adozione dei criteri della IDF Consensus Conference 2005 sulla valutazione epidemiologica della sindrome metabolica: nel campione osservato la prevalenza verrebbe addirittura raddoppiata, passando dal 22.09% della classificazione ATP III (coerente con i dati della letteratura) a un ben più allarmante 44.42%.
Tuttavia, il significato di questi dati è ancora ampiamente oggetto di discussione. In letteratura sembra appalesarsi una sorta di “conflitto” tra cardiologi e diabetologi, i primi proiettati a una visione “apocalittica” di pandemia mondiale, i secondi criticamente propensi al dubbio sul reale impatto clinico di queste osservazioni e sui problemi di gestione del paziente.
L’American Diabetes Association (ADA) e l’European Association for the Study of Diabetes (EASD) (Kahn, 2005) hanno recentemente richiamato l’attenzione sulla sindrome metabolica, sostenendo la necessità di verificare se tale entità nosografica sia davvero sempre strettamente correlata allo sviluppo di malattie cardiache, quanto rilevante sia tale associazione e se sia veramente appropriato definirla “sindrome”.
Tale posizione, nel contesto tipicamente bio-psico-sociale della medicina di famiglia, appare alquanto ragionevole, anzitutto perché ci troviamo di fronte a una definizione incerta (da rivedere a seconda degli esperti) di una sindrome che non è composta di classici segni e sintomi riferibili a un’unica causa, ma rappresenta la somma di un certo numero di fattori di rischio che a sua volta va a costituire un nuovo unico fattore di rischio; perciò l’uso del termine “sindrome” appare, tra l’altro, quantomeno discutibile.
Inoltre, il rapporto tra sovrappeso e malattie cardiovascolari è molto complesso e necessita di maggiori approfondimenti, poiché in letteratura si registrano dati di non univoca interpretazione.
È infine rilevante che la globalità dell’approccio della disciplina della MdF imponga di considerare il disagio delle persone come un macrocosmo nel quale abbiano pari dignità anche tutta una serie di fattori psico-sociali (culturali, storici), che comunque inficiano pesantemente la teorica “purezza” dei dati quantitativi.

Considerazioni epistemologiche


La definizione della sindrome metabolica proposta dall’IDF si inserisce in quel fenomeno di rimaneggiamento di categorie nosologiche, che da un lato fa registrare la comparsa di nuove sindromi e dall’altro amplia la condizione di “patologia” a scapito di ciò che “appare” normale.
Negli ultimi anni si è verificato in seno alla comunità medica internazionale un significativo “abbassamento della soglia” (pressione arteriosa, glicemia e colesterolo). Questo mutamento di soglia viene supportato con dati scientifici che dimostrano l’esistenza di una relazione continua tra i predetti parametri e il rischio di sviluppare malattia.
La MdF dovrebbe mantenere una posizione critica nei confronti della sindrome metabolica. Tuttavia, in tale contesto scientifico e culturale, questo atteggiamento critico è in una relativa posizione di debolezza. Essere critici non significa essere incapaci di valorizzare le reali posizioni di progresso, ma, in campo bio-psico-sociale, avendo di fronte un uomo che soffre (o che crede di soffrire) significa fondamentalmente “ridurre” il problema. Riduzione equivale a sintesi e questo processo, hic et nunc, è abbastanza inviso alla scienza moderna, tipicamente analitica.
In medicina di famiglia il processo riduttivo non è un procedere banalizzante, ma cerca di dare pari dignità ai dati quantitativi e a quelli qualitativi. Quindi, se la MdF ritiene necessario mantenere sub iudice i criteri IDF per la sindrome metabolica, lo fa in funzione disciplinare specifica, usando la sintesi e non l’analisi.
In ambito bio-psico-sociale è inoltre importante riflettere sulle conseguenze che la diagnosi di SM potrebbe produrre sulla percezione del proprio stato di salute nelle persone.
A tale riguardo è interessante riflettere su alcuni termini del vocabolario inglese. A differenza di quanto accade in altre lingue, sono presenti tre termini diversi per designare la condizione che in italiano definiamo come “malattia”: disease, illness e sickness.
  • “Disease” indica la malattia in quanto sindrome individuata da un insieme di tecniche e definita entro un vocabolario specialistico: la disease ha sempre a che fare con un sistema di astrazioni, e cioè con una casistica e con un’interpretazione. La disease appartiene ai trattati di medicina e costituisce la nosografia.
  • “Illness” è la malattia per come questa è presente nella coscienza individuale: è il male che la persona ha addosso, quello che la persona (quella persona!) si sente, il dolore che prova o il disagio che la condiziona.
  • “Sickness” è la malattia di un membro della società nella misura in cui è percepita e presa in carico dalla comunità, dall’ambiente sociale del malato.

Il Mmg, diversamente dallo specialista d’organo dal quale ci si attende essenzialmente una grande competenza nell’affrontare la disease, deve considerare l’uomo in maniera olistica e preoccuparsi anche della illness e della sickness.
È doveroso dunque chiedersi: che ne sarà di pazienti asintomatici che non si percepiscono “ill”, in realtà in buone condizioni di salute e in piena efficienza lavorativa e sociale, che si trovano improvvisamente catapultati in una disease?
Il paziente infatti generalmente fa coincidere il significato del termine “fattore di rischio”, identificandolo con “causa” (Bisconcin, 2006), tendendo a sopravvalutarne l’importanza individuale (per lui, qui e ora!) o al contrario ad ignorarlo totalmente, forse per meccanismi di difesa come la negazione, talvolta per autentico scetticismo.
Quali ripercussioni sulla sickness? In una società sempre più pervasa da stereotipi che pongono l’ideale di bellezza a “livelli da anoressia” è “medicalmente” inquietante un ulteriore abbassamento della soglia di allarme per la circonferenza addominale. L’obesità è decisamente stigmatizzata in molti Paesi europei, sia in termini di percezione di un aspetto fisico indesiderabile sia in termini di difetti di carattere che si suppone indicare. Purtroppo essa tende a essere considerata più nella sua valenza “morale” o “estetica” che in quella “sanitaria”. Si è visto che nell’età della seconda infanzia molti bambini percepiscono i coetanei obesi come “pigri, sporchi, stupidi, brutti, bugiardi e imbroglioni” (Wadden, 1985). Alcuni studi dimostrano che nel Regno Unito e negli USA le giovani donne in sovrappeso guadagnano decisamente meno delle loro coetanee sane di peso normale o affette da altri problemi di salute cronici (Gortmaker, 1993). Anche la sovralimentazione su base psichica si verifica con maggiore frequenza tra i soggetti obesi e molte persone affette da questo disordine alimentare hanno una lunga storia di alimentazione incontrollata e continue variazioni di peso (Spitzer, 1992).
Considerazioni di questo tipo mancano nelle linee guida e nei vari consensus degli specialisti d’organo, la cui posizione nei confronti della sindrome metabolica è fortemente ed esclusivamente biomedica. È innegabilmente utile e indispensabile che il medico specialista produca dati fortemente orientati alla diseaseno.
Questo genera la necessaria conoscenza che, a sua volta, il Mmg utilizzerà nella sua pratica. Ma questi è diverso dallo specialista. Per formazione e cultura egli pratica un’altra professione e trova le ragioni della propria medicina generale e generalistica (ma non generica) nell’applicazione del suo sguardo a tutto l’uomo sano-malato e alla sua realtà, organica, somato-psichica, personale, familiare, ambientale, sociale.
È quindi necessario, a nostro parere, che il Mmg più che comunicare una diagnosi di sindrome metabolica al suo paziente, fornendogli la gabbia dei parametri entro cui stare, debba coinvolgerlo nella gestione dei suoi comportamenti e del suo stile di vita. Non deve mai stancarsi di insegnare al paziente il vero valore del concetto di “fattore di rischio” e come tale mai assumere atteggiamenti o adottare prescrizioni colpevolizzanti.
Esistono strumenti visuali e tecniche appositamente studiati per incrementare l’efficacia comunicativa che favoriscono la corretta acquisizione del concetto di rischio (Paling, 2003).
La sindrome metabolica è la nuova metafora del metodo clinico della medicina di famiglia.


Medici AIMEF partecipanti allo studio:
Franco Carnesalli (Milano)
Carla Marzo (Bologna)
Marco Modolo (Conegliano, TV) Michelangelo Pucci (Quarto D’Altino, VE)
Roberto Riberto (Marcon, VE)
Orlando Ricciardi (Godega S. Urbano, TV)
Filippo Zizzo (Lissone, MI)
Carmela Zottano (Milano)


Bibliografia

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