M.D. numero 29, 11 ottobre 2006

Riflessioni
Autorevolezza del medico di famiglia tra bisogni reali e indotti
di Ivano Cazziolato - Medico di Famiglia, psicoterapeuta, Marcon (VE), AIMEF - Dipartimento di Neuroscienze

È la dimensione relazionale il terreno più proficuo e idoneo per affrontare la sfida che i cambiamenti del contesto socio sanitario e l’aumento della domanda di salute impongono alla medicina di famiglia. Per rispondere adeguatamente a questo bisogno è necessaria una formazione specifica orientata in questa direzione

E'
difficile scrivere del proprio tempo e intorno alla professione che si svolge, cercando di coglierne non solo il senso, ma soprattutto verso quali mete si sta andando, quale sarà la medicina dei prossimi anni, il ruolo e le sfide che spetteranno ai medici di famiglia (MdF). Ciò che forse il MdF percepisce maggiormente è una spinta al cambiamento e al nuovo, spinta che ha avuto grandi accelerazioni in questi ultimi anni.
I medici, protagonisti anche loro malgradono di un sistema in continuo fermento, non sempre avvertono la sensazione che la nuova sanità porterà anche una ventata di gratificazione. C’è il timore che quanto si sta facendo non va bene, non corrisponde a un reale bisogno, del resto non si può non rischiare ricercando il nuovo: se pensiamo per esempio che la prima della Traviata andata in scena a Venezia, al Teatro la Fenice, fu fischiata, ci si rende conto che non sempre il cambiamento di costume e la novità sarà accolta con un applauso. Proprio per questo ritengo necessario porci delle specifiche questioni, chiederci se ci siamo interrogati abbastanza sull’annosa domanda della relazione con il paziente: da quale punto di vista l’abbiamo osservata? Da quello del paziente, dal nostro, da entrambi? Ci accorgiamo più dell’irritazione del paziente, ma riusciamo a riconoscere a sufficienza la nostra irritazione? Stiamo andando verso la fibrillazione del sistema o verso un sistema già in fibrillazione? Ha ancora un significato parlare d’autorevolezza del medico di famiglia oggi?

Verso una sanità che cambia


L’ultimo decennio che ci ha visto protagonisti è stato caratterizzato da una continua e sistematica dismissione di ospedali periferici con l’intento di aggregare in macroaree, reparti, ambulatori e servizi, nel tentativo di contenere la vertiginosa spesa sanitaria che cresce ogni anno in modo esponenziale.
Sono state introdotte le UTAP, le associazioni, la medicina di gruppo, tutte forme di aggregazione interessanti, purché non scimmiottassero ciò che a livello centrale sta per essere dismesso, creando dei surrogati che da un punto di vista qualitativo, anziché rappresentare un valore aggiunto, finiscono per ricreare sul territorio numerosi piccoli punti di primo intervento dove si fa molto e magari peggio.
C’è un tema che ha a che fare con la fibrillazione e riguarda l’aumento della domanda di salute, aumento che non sempre corrisponde a reali bisogni se non quelli che rischiano di vederci occupati nella ricerca della patologia del pelo superfluo. Su questo argomento una bella responsabilità l’hanno anche i sindacati: talvolta sembrano lavorare più nella direzione dell’incremento della fibrillazione che in quello della cardioversione.
Una certa adesività a domande di salute che sottendono a bisogni irrazionali non dichiarati ma sperati, del tipo “dammi l’immortalità”, accrescono la spesa sanitaria, la fibrillazione del paziente e la frustrazione del medico. Non sarà certo facendo lavorare di più i medici di famiglia che si troverà la cura più adatta a questa fibrillazione cronica e recidivante, ma attuando la cardioversione, di cui pare non occuparsi nessuno. Forse è impopolare, ma probabilmente è necessaria a evitare un arresto cardiaco. A volte sono necessarie scelte coraggiose. Un ticket sull’accesso agli ambulatori della medicina di famiglia nel 2006 è ancora un tabù? Eppure con quel ticket si potrebbero finanziare dei progetti, sulla prevenzione primaria, su un’educazione alla salute, sull’alcol, sul fumo, sulla droga, sulle malattie sessualmente trasmesse, sull’ipertensione, sul diabete, sul cancro e perché no, perfino i nostri rinnovi contrattuali. Progetti che vadano verso una modifica dello stile di vita piuttosto che in richieste d’accertamenti, mentre sento meno opportuna la creazione di un partito di medici. Ritengo politicamente più sano che ciascuno di noi rappresenti se stesso e i propri ideali all’interno di tutti gli schieramenti politici, o vogliamo domani creare il partito dei medici ospedalieri, quello dei medici specialisti convenzionati, o quello dei pediatri di base?

Quale relazione tra paziente e medico?


I corsi attivati dopo l’introduzione dell’ECM, organizzati da Società scientifiche, aziende farmaceutiche, ASL, gruppi di medici sono stati per lo più rivolti a svariati argomenti: cuore, dislipidemie, osteoporosi, diabete, pneumologia, mentre ancora troppo pochi sono i corsi dedicati al medico e alla sua competenza relazionale. Una formazione in questa direzione è ormai indispensabile per affrontare un lavoro ogni giorno più complesso, ma appassionante, purché si metta il medico nelle condizioni di rimanere al passo con i tempi, altrimenti è come se viaggiasse in autostrada ma in una carrozza trainata da cavalli. Ci sono a questo proposito pacchetti formativi già collaudati da più di quindici anni, come quelli previsti dall’Istituto di Terapia Familiare e che sono rivolti specificamente ai medici di famiglia. Gli Istituti di Terapia Familiare sono distribuiti in tutta Italia (www.itff.org e www.itfv.it).
Oggi il Ssn pretende di scaricare sulle sole capacità dissuasive dei sanitari le richieste inutili d’accertamenti. L’autorevolezza del medico non è più sufficiente a contenere un fiume in piena di domande diagnostiche e terapeutiche che rappresentano lo specchio dell’esuberanza d’offerta. L’offerta è sotto gli occhi di tutti: sulle riviste, sui quotidiani, su internet, in televisione, attraverso sms.
Sono in corso interessanti studi sul significato di “autorevolezza”, ma penso che la questione sia all’origine.
Prima di parlare di autorevolezza, cerchiamo di osservare i cambiamenti avvenuti nella nostra società, come per esempio si è mutato il bisogno di salute negli ultimi venti anni e come siamo cambiati noi MdF. Il nostro è diventato un lavoro di “accertamentificio” e il paziente non può uscire dallo studio con richieste d’esami disattese. Il suo potere, quindi, diventa sempre più direttamente proporzionale alla nostra perdita d’autorevolezza ed il rischio di una contrapposizione è forte. C’è il medico più autorevole che forse qualche volta riesce a dire di no, e tutti gli altri? A questo proposito, il lavorare in un gruppo può rappresentare un vantaggio, se tutti i membri dello stesso assumono una posizione corale quando pervengono richieste che scientificamente non hanno fondamento. È necessario lavorare di più e meglio sull’informazione sanitaria e sulla prevenzione primaria. È altresì necessario consolidare l’autorevolezza del medico attraverso un suo percorso che lo porti a una diversa percezione di sé, spogliandolo della zavorra che si porta dietro, facendogli recuperare quel gap che gli fa percorrere l’autostrada seduto su una carrozza trainata dal cavallo.
La percezione di molti medici è la sindrome dell’”assistenza del criceto” (BMJ 2000; 321: 1541). Si tratta di un numero sempre maggiore di sanitari che provano la sensazione di vivere la propria giornata lavorativa girando a vuoto, come fanno i piccoli roditori in gabbia. Una specie di wandering che vediamo spesso in pazienti affetti da demenza. Vogliamo davvero vivere il nostro lavoro in questo modo?

Il lavoro di gruppo


Una recente esperienza formativa AIMEF sulla gestione di gruppi e sulla leadership ha permesso, seppure brevemente nell’arco di due giornate, di toccare le difficoltà, ma anche le opportunità contemplate nel lavoro di gruppo. È stata l’occasione per far emergere conflitti, capacità di dialogo, autorevolezza, senso del limite, leadership, confini e un modello di gestione di tutto questo. Tutto si è svolto in una cornice estiva come il luogo che ci ospitava, ma dove i contenuti non sono mancati, né è mancata la voglia di stare assieme e il desiderio di confrontarsi. È stato dato spazio alle emozioni.
Il gruppo ha una sua storia e una sua evoluzione, non è statico.
Bisogna distinguere tra gruppi di lavoro e lavoro di gruppo.
Il gruppo di lavoro costruisce prima il “campo”, in altre parole la relazione. Il modo di stare insieme di un gruppo è caratterizzato dalla tensione nel conoscersi meglio; in pratica tende a fare emergere le risorse individuali e di gruppo. Nel lavoro di gruppo, dove lo sfondo diventa il lavoro/compito e la figura diventa gruppo, vale a dire relazione, spesso si guarda troppo all’obiettivo e poco al processo.
Per fare un buon lavoro di gruppo prima va costruito un buon gruppo, in pratica un buon gruppo di lavoro, cioè una buona relazione gruppale; nella misura in cui il clima migliora allora diventa più semplice guardare all’obiettivo e al compito e lavorare bene insieme. La differenza tra gruppo e gruppo di lavoro inizia con la differenza tra gruppo che soddisfa bisogni e gruppo di lavoro che integra i bisogni individuali. L’esperienza descritta è stata intensa ma ha avuto il limite di una mancata continuità. Senza la continuità, il gruppo non può crescere e sviluppare tutte le sue potenzialità.
Nell’emergere di un “gruppo come sistema” è necessario che le forze, le tendenze alla complementarietà (affinità, affiliazione, somiglianza, regole, comunicazione) contengano e in qualche misura inibiscano e controllino le tendenze antagonistiche (dissociazione, mutua esclusione, differenziazione).
È necessario che le tendenze alla conformità nel gruppo integrino la diversità individuale, la comprendano senza annullarla o appiattirla. In un gruppo di lavoro dovrebbero presentarsi contemporaneamente il massimo della varietà e il massimo della ridondanza.