M.D. numero 22, 14 giugno 2006

Pratica medica
Gestione di politerapia in anziana paziente
di Leonardo Trentadue, Medico di medicina generale, Ferrandina (MT)

Una paziente di 85 anni in assistenza domicilare integrata affetta da pluripatologie mi chiama per una visita domiciliare motivata da dolori acutissimi alla schiena che le hanno impedito di dormire. Constatata un’elevata dolorabilità alla digitopressione della colonna cervico-dorsale accentuata dai movimenti del tronco, prescrivo una radiografia urgente della colonna vertebrale. Al pronto soccorso il controllo radiografico evidenzia crolli vertebrali somatici multipli e l’ortopedico prescrive per la paziente, che è in terapia cumarinica, i seguenti farmaci: alendronato, acido clodronico e, per il dolore, celecoxib.


Storia clinica
La paziente è ipertesa da anni ed è affetta da BPCO, con frequenti episodi di riacutizzazione.
Nel novembre 2000 viene colpita da ictus cerebri con paresi dell’emisoma sinistro, da cui si ristabilirà quasi completamente.
Un anno dopo compare diabete in forma non severa, ben controllato con ipoglicemizzanti orali. Nello stesso periodo inizia a manifestarsi un’insufficienza della grande safena destra.
Nel 2004, dopo alcuni episodi di riacutizzazione della bronchite cronica, la paziente è colpita da paresi periferica del VII nervo cranico di destra che, nel giro di alcune settimane, regredisce dopo terapia con complessi vitaminici del gruppo B e levoacetilcarnitina. Inoltre una radiografia della colonna lombo-sacrale mette in risalto un’ateromasia calcifica dell’aorta. Viene anche diagnosticata la presenza di osteoporosi.
L’anno successivo compare fibrillazione atriale che comporta un ricovero ospedaliero, nel corso del quale viene diagnosticata una modesta steno-insufficienza aortica su base degenerativa e scompenso congestizio. Viene prescritta terapia anticoagulante con warfarin, in aggiunta ai farmaci per l’ipertensione, il diabete, l’osteoporosi, a una statina e ad ASA a basse dosi.
Nel gennaio 2006, nuovo ricovero per edema polmonare acuto, anch’esso superato con successo. Residua però insufficienza respiratoria cronica, che richiede ossigenoterapia domiciliare.

Terapia attuale


Ritornando al riscontro dei crolli vertebrali multipli, va evidenziata la politerapia che la paziente assumeva sino a quel momento: nitroglicerina transdermica, isosorbide dinitrato per via sublinguale, digossina 0.25 mg, enalapril 20 mg, amlodipina 5 mg, glibenclamide+metformina, acido acetilsalicilico 100 mg, warfarin 5 mg, atorvastatina 20 mg, furosemide, ossigenoterapia, calcio+vitamina D e acido clodronico.
L’ortopedico che visita la paziente al pronto soccorso aggiunge alendronato 70 mg e celecoxib 200 mg, confermando l’acido clodronico.

Dubbi sulla prescrizione ospedaliera


Quando i familiari della paziente ritornano dal pronto soccorso e mi contattano per la prescrizione dei farmaci, mi preoccupo per la prospettiva di possibili discussioni per anomala prescrizione indotta, anche se l’alendronato è stato correttamente prescritto ed è conforme alla nota, ma come la mettiamo col celecoxib, viste le condizioni cardiovascolari della paziente? Qui non c’entrano note e burocrazie correlate. Eppure i familiari mi assicurano che il collega ha potuto controllare tranquillamente la politerapia a cui era sottoposta la paziente.
A questo punto ho ritenuto opportuno applicare il principio di precauzione e ho valutato l’opportunità di sostituire il celecoxib con un altro antidolorifico, considerata l’assoluta necessità di tenere sotto controllo il forte dolore della paziente. Decido per l’uso di ibuprofene, che non dà significative interazioni col warfarin, anche se il rischio emorragico è aumentato dall’uso concomitante dell’ASA.
Il giorno dopo però la paziente telefona per dirmi che l’ibuprofene ha attenuato il dolore per solo tre ore, che poi è ricomparso.
Ho preso in considerazione la possibilità di prescrivere il paracetamolo, di cui si raccomanda, in associazione col warfarin, una dose non superiore ai 2 g/die, ma il ricordo di scarsa efficacia del farmaco nella stessa paziente per il controllo di artralgie acute (in occasioni precedenti ai crolli vertebrali), mi fa desistere.
Mi è tornato in mente il metamizolo (detto anche dipirone), ingiustamente “maltrattato” negli anni scorsi per una sopravalutazione del rischio di agranulocitosi, e decido di somministrarlo.
Passano alcuni giorni e non ricevo alcuna notizia. Decido di contattarla e finalmente la paziente si rivela quasi del tutto liberata dal dolore.

Commento


Il caso evidenzia due problemi che si possono presentare nella pratica della medicina generale. Il primo concerne il ruolo del medico di famiglia che, al di là dei disappunti per le incresciose situazioni di rapporto interpersonale, si rivela decisivo per evitare ulteriori complicazioni ai pazienti.
Il secondo riguarda la terapia antalgica in pazienti che assumono anticoagulanti, che comporta impegno e necessità di scelte precise e coerenti con le specifiche situazioni cliniche.