
M.D.
numero 37, 7 dicembre 2005
Clinica
Aspetti critici nella gestione del paziente
con sindrome metabolica
di Claudio Ferri, Dipartimento di Medicina Interna
e Sanità Pubblica, Università di L¹Aquila
Lassociazione
di più fattori di rischio cardiovascolare o la loro potenziale
espressione futura definiscono un impatto prognostico negativo
e raccomandano per questi pazienti ladesione a un approccio
terapeutico globale, dove il primo passo è la correzione
dei comportamenti dannosi e a seguire un intervento farmacologico
mirato
La
sindrome metabolica (SM), definita in passato in modo a volte
anche fantasioso con i termini sindrome X, sindrome da insulino-resistenza
o quartetto mortale, è definibile come laggregazione
nello stesso individuo di almeno tre anomalie: del metabolismo
glucidico, del metabolismo lipidico, del peso corporeo (con esclusivo,
o pressoché tale, riferimento allaccumulo centrale
della massa grassa) e della regolazione pressoria (tabella 1)
(Grundy SM et al. Circulation 2005; 112: 2735-2752). Ciascuna
delle suddette anomalie può o non può essere di
per sé un ben documentato fattore di rischio cardiovascolare.
Prevalenza
La sindrome metabolica è molto diffusa, con una prevalenza
nella popolazione americana del 24% nel sesso maschile e del 23.4%
nel sesso femminile. Tale prevalenza aumenta con letà,
anche se è ormai marcata persino in età pediatrica,
passando dal 7% per i soggetti di età compresa tra 20 e
29 anni al 44% nella fascia di età compresa tra 60 e 69
anni. In accordo con i dati americani, anche le stime italiane
mostrano una elevata prevalenza della sindrome metabolica, particolarmente
nelle donne (27.2%) rispetto agli uomini (22.3%). Tale elevata
prevalenza è da imputare allimpatto di uno stile
di vita scorretto con un substrato genetico predisposto.
La
sindrome metabolica è associata a un aumentato rischio
di sviluppare malattia coronarica, cerebrovascolare, insufficienza
renale cronica e/o malattia vascolare periferica. In particolare,
in uno studio epidemiologico condotto da anni in America e noto
come Third National Health and Nutrition Survey (NHANES III) la
correlazione esistente tra infarto miocardico e/o ictus e la presenza
di sindrome metabolica è apparsa molto evidente (Ninomiya
JK et al. Circulation 2004; 109: 42-46) (figura 1), soprattutto
nel sesso femminile (OR 2.20, p<0.0001 vs 1.93 per gli uomini,
p=0.0007), sia globalmente che particolarmente per i singoli fattori
di rischio ipertrigliceridemia (donne: OR 2.05, p=0.0042; uomini:
OR 1.47, p=0.0581) e ipertensione (donne: OR 2.19, p=0.0175; uomini:
OR 1.18, p=0.3975).
Come affrontare il paziente con sindrome metabolica
Il principale aspetto critico nel trattamento della sindrome metabolica
è legato sia al mancato trattamento che allerronea
scomposizione della problematica individuale in una serie di disordini
apparentemente non legati fra loro, assegnati volta
per volta a un singolo specialista, quasi sempre non in collaborazione
con gli altri.
La sindrome metabolica, invece, rappresenta unentità
complessa, forse non considerabile come una vera e propria sindrome
clinica e talvolta di interesse non particolarmente rilevante
in termini di rischio addizionale per particolari popolazioni
di pazienti, ma che deve prevedere sempre e comunque un approccio
realmente globale, in cui il paziente sia considerato una persona
e non scomposto in singoli problemi.
Il primo passo, pertanto, sarà sempre quello di correggere
e prevenire comportamenti dannosi (scelte alimentari scorrette,
sedentarietà, fumo), responsabili del manifestarsi della
sindrome metabolica. Lintervento educativo dovrà
rappresentare, quindi, il primo, vero approccio unificante alla
gestione del paziente con sindrome metabolica e, come tale, dovrà
essere sia tempestivo, cioè messo in atto prima della comparsa
del danno dorgano, sia precedente e/o affiancante una corretta
terapia farmacologica diretta contro i singoli fattori di rischio
implicati nella sindrome metabolica. A tale proposito, nella scelta
dei farmaci da prescrivere pesano alcune considerazioni
importanti. Dopo lobesità, il componente più
frequentemente reperibile nel soggetto con sindrome metabolica
è rappresentato dalla presenza di una pressione arteriosa
„130/85 mmHg (normale-alta) oppure francamente elevata („140/90
mmHg). Naturalmente,
lobiettivo fondamentale da raggiungere nel paziente iperteso
è sempre la riduzione pressoria. Tuttavia, tanto in generale
quanto e soprattutto in un ambito così complesso e poliedrico
come quello della sindrome metabolica, non si devono dimenticare
alcune rilevanti considerazioni, prima fra tutte quella relativa
alla particolare suscettibilità che il paziente iperteso
ha di sviluppare ridotta tolleranza per gli idrati di carbonio
prima e diabete di tipo 2 poi, con conseguente consistente incremento
del rischio di eventi cardiovascolari (figura 2).
Nello studio umbro Progettono Ipertensione Umbria Monitoraggio
Ambulatoriale (PIUMA), il 5.8% di 795 pazienti ipertesi seguiti
da 1 a 16 anni ha sviluppato diabete mellito durante il trattamento,
con predittività per il diabete dimostrata tanto per i
livelli di glicemia pre-trattamento quanto per la prescrizione
di una terapia con diuretici (Verdecchia P et al. Hypertension
2004; 43: 963-969). Pertanto, dallo studio PIUMA appare evidente
che alcuni farmaci antipertensivi, quali i tiazidici, se utilizzati
non in combinazione ad altri dotati di effetti metabolici favorevoli,
possono indurre la comparsa di sindrome metabolica nel paziente
iperteso. Al contrario di ciò, invece, le classi di antipertensivi
che agiscono sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS)
vale a dire gli ACE-inibitori e gli antagonisti del recettore
AT1 dellangiotensina II (ARB) hanno uno spiccato
effetto preventivo nei confronti del diabete mellito di tipo 2
e, più in generale, del dismetabolismo glicolipidico e
degli urati. I meccanismi, molto complessi, attraverso i quali
tali classi di farmaci svolgerebbero il loro ruolo antidiabetogenico
sono stati studiati in modo molto approfondito, soprattutto per
la classe degli ARB. Per tali farmaci, in particolare, la protezione
metabolica deriverebbe da due strade, una sola delle quali
condivisa, almeno in parte, da ARB ed ACE-inibitori.
La prima strada, in particolare, vede implicato direttamente il
legame tra angiotensina II e recettore AT1, che è in grado
di perturbare in modo marcato il segnale dellinsulina, riducendo
così il trasporto del glucosio mediato dallormone
beta-cellulare che, per converso, viene ripristinato dal blocco
selettivo del medesimo recettore molto più che dalla semplice
riduzione, per altro modesta, della produzione di angiotensina
II indotta dallACE-inibizione.
La seconda strada seguita dagli ARB per migliorare la sensibilità
insulinica è fondata sulla stimolazione della produzione
di PPAR-gamma (Schupp M et al. Circulation 2004; 109: 2054-2057)
un complesso sistema intracellulare in grado di svolgere
una azione tanto antiflogistica allinterno della parete
vasale quanto di potenziamento del segnale insulinico la
cui attivazione, pertanto, è in grado di contrastare tanto
lo sviluppo di dismetabolismo glicolipidico quanto della lesione
aterosclerotica.
La
strada del PPAR-gamma, curiosamente, non dipende dal recettore
AT1, potendo essere percorsa anche in cellule prive di tale recettore
(figura 3). Addirittura, anzi, la stessa strada sarebbe condivisa
tra molti ARB, ma presente a concentrazioni analoghe a quelle
osservabili nel paziente trattato esclusivamente per uno di essi,
telmisartan (Benson SC et al. Hypertension 2004; 43: 993-1002).
Tale peculiare potenza del telmisartan rispetto agli altri ARB
per quanto attiene leffetto sul PPAR-gamma, che sembrerebbe
farne lunico ARB dotato di un vero effetto SPPARM (selective
PPAR-gamma modulator) (Kurtz TW, Pravenec M. J Hypertens 2004;
22: 2253-61), sarebbe legata alla sua struttura molecolare, che
ricorda quella dei glitazoni, farmaci comunemente utilizzati nel
trattamento del diabete proprio per la loro capacità di
stimolare il PPAR-gamma.
A conferma
di tale affascinante ipotesi, derivata dai sopra citati dati in
vitro, un gruppo di ricercatori giapponesi (Miura Y et al. Diabetes
Care 2005; 28: 757-758) ha recentemente dimostrato che i livelli
di insulinemia a digiuno, adiponectina, trigliceridi e proteina
C reattiva valutata con metodica a elevata sensibilità,
tutte variabili strettamente correlate con il grado di insulino-resistenza
e con lo sviluppo di aterosclerosi, erano migliorati significativamente
dal trattamento con telmisartan anche in pazienti ipertesi e diabetici
pretrattati con altri ARB che, al contrario, non avevano indotto
modificazioni significative delle stesse variabili (figura 4).
Questi risultati suggeriscono delle interessanti potenzialità
per telmisartan nellambito della prevenzione cardiovascolare.
Ciò sia nel paziente iperteso che già manifesta
la costellazione di fattori di rischio cardiovascolare definita
come sindrome metabolica, sia in quello iperteso senza
anomalie metaboliche, ma a rischio di svilupparle. A tale proposito,
anzi, le proprietà ancillari del telmisartan nei confronti
del PPAR-gamma ne suggeriscono una consistente potenzialità
nella prevenzione del diabete mellito di tipo 2, anche a prescindere
dal livello tensivo, e meriteranno senzaltro lo svolgimento
di specifici studi in tal senso.
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