M.D. numero 36, 30 novembre 2005

Focus on
Salute e sistema delle cure: la sfida della dimensione sociale
di Giuseppe Belleri, Medico di medicina generale Flero (BS) e Monica Di Sisto

Benché le condizioni socioeconomiche incidano fortemente sugli esiti di salute, tale componente è scarsamente considerata. Si preferisce puntare sui comportamenti e gli stili di vita. La medicina di famiglia, in quanto prima responsabile della relazione terapeutica, ha le carte in regola per raccogliere la sfida e superare il gap che si registra tra dimensione sociale e dimensione clinica.

Le condizioni socioeconomiche incidono per il 50% sulla longevità, intesa sia come speranza di vita sia come qualità, tanto da creare una differenza anche di 5 anni nell’aspettativa di vita. Il patrimonio genetico, invece, si ferma a determinare appena il 20% dell’aspettativa di vita, una percentuale pari a quella determinata dall’ambiente. Il resto dipende dal Servizio sanitario del Paese dove si nasce. Eppure la percezione della popolazione è molto differente: il peso del Servizio sanitario nazionale superebbe, in questo caso, il 60%, mentre la considerazione per la cultura e le condizioni socio-economiche sfiorerebbe appena il 10%, così come la predisposizione genetica. Un concetto sottolineato da Gianfranco Domenighetti, direttore del Servizio sanitario Canton Ticino, nel corso dell’incontro “Diseguaglianze sociali: il ruolo della comunicazione pubblica”, che si è svolto a Bologna presso il Compa, il salone europeo della comunicazione pubblica dei servizi al cittadino e alle imprese. “La componente socio-economico non è spesso considerata quando si parla di salute, mentre si punta in particolare sui comportamenti e gli stili di vita - ha affermato Domenighetti - invece ci sono tante ricerche scientifiche che confermano una differenza di almeno 5 anni di vita tra le classi più ricche e le meno abbienti”.
Nella speranza di vita, per esempio, si registra una forbice di molti anni tra l’Italia, che tocca gli 80 anni, e il Mozambico, che sfiora appena i 34. Ma si può anche considerare il diverso ricorso alla prevenzione. Basti pensare alle “mammografie eseguite dalle over 40: il 61.8% delle laureate e appena il 24.8% di coloro che non hanno alcun titolo di studio”, ha evidenziato Giuseppe Fattori, direttore del Sistema di comunicazione e marketing dell’Azienda Usl di Modena. “Stesso discorso vale per il pap-test - ha spiegato ancora Fattori - le donne laureate e quelle con una licenza di media superiore in Italia si sottopongono allo screening in 7 casi su 10, chi ha la licenza elementare in un caso su 2 e quelle senza alcun titolo di studio in appena il 32.2%”.
Ma i Mmg sono pronti a gestire queste nuove evidenze scientifiche? E quali scelte concrete sono pronti a mettere in campo, sia in ambito clinico, sia scientifico-formativo?

Mmg a confronto con la dimensione sociale


Il Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale (CSeRMeG) ha compiuto i vent’anni dalla sua fondazione. Ha festeggiato l’evento a fine ottobre, nell’ormai tradizionale cornice congressuale sulla sponda veronese del Lago di Garda, affrontando proprio questo tema difficile e inconsueto: “Determinanti della salute, disuguaglianza, discriminazione: lo sguardo della Medicina Generale”. Inconsueto poiché discutere di uguaglianza/disuguaglianza riguardo alla salute evoca cornici concettuali che esulano dalla tradizionale impostazione medica, per sconfinare nel mondo giuridico (la natura complessa del diritto positivo alla salute) in quello politico (uguaglianza con caposaldo della democrazia) e dell’evoluzione storico-sociale (il rispetto delle differenze culturali come base per l’uguaglianza). Anche il Mmg talvolta, sebbene operi nel contesto di un sistema sanitario equo e solidaristico, può trovarsi nell’incomoda posizione di esercitare il ruolo di agente di giustizia locale. Infatti quando deve prendere decisioni che possono avere risvolti di equità sociale (per esempio far pagare un farmaco perchè non prescrivibile a carico del Ssn in quel particolare assistito) può scegliere in modo informale, con compromessi, aspetti idiosincrasici ed eccezioni non sempre eque.
La ricerca epidemiologica ha affrontato spesso il rapporto tra le condizioni socioeconomiche e la salute, per esempio mettendo in relazione la variabile reddito e la mortalità. In effetti per valori minimi di reddito (povertà assoluta) è stato verificato un aumento della mortalità, che invece si riduce proporzionalmente con l’incremento del reddito, cioè non appena viene superata la soglia di povertà. Riguardo all’occupazione sono stati rilevati tassi di mortalitàno tra i lavoratori manuali superiori rispetto al lavoro impiegatizio e così pure le complicanze del diabete mellito sono più frequenti tra i lavoratori non professionalizzati e tra i disoccupati. Infine gli assistiti con basso livello di istruzione accedono spesso ai servizi sanitari anche se non sempre le prestazioni sono appropriate rispetto al bisogno.
Per ovviare all’influenza negativa sulla salute delle condizioni socioeconomiche si possono adottare alcune strategie pratiche.
Il medico dovrebbe identificare sistematicamente i fattori determinanti nel singolo paziente per un approccio clinico più attento e personalizzato e, secondariamente, promuovere il cosiddetto empowerment del paziente e le sue capacità di far fronte ai principali problemi di salute (strategie di coping).

Fattori di rischio: minori solo in apparenza


I determinanti socioeconomici della salute e delle malattie sono stati considerati tradizionalmente alla stregua di fattori di rischio minori o collaterali rispetto a quelli biologici, sebbene già in passato alcune ricerche avessero messo in luce la loro importanza. Per esempio una storica ricerca del passato aveva documentato che le reti sociali hanno un effetto protettivo sul reinfarto addirittura superiore ai betabloccanti. Un’importante ricerca epidemiologica sulla patologia coronarica, pubblicata su Lancet (2004; 364: 937-52 e 953-62), ha riportato l’attenzione dei medici sui determinanti psicosociali della malattia. Si tratta dello studio caso controllo sul rischio di infarto miocardico, denominato Interheart, condotto in ben 52 Paesi in tutto il mondo, che ha permesso di quantificare i principali fattori di rischio, già noti: fumo di sigaretta, diabete, colesterolemia e obesità. Un po’ a sorpresa, accanto a questi determinanti biologici, l’indagine ha messo in luce il ruolo altrettanto rilevante delle condizioni psicosociali, nella fattispecie povertà, disoccupazione e depressione. Essi si sono affiancati a fattori di rischio classici come fattori di rischio clinico cardiovascolare indipendenti dal contesto. I fattori sociali, ha rivelato per di più lo studio Interheart, influenzano intorno al 35% dei casi di rischio. Se si considera che una condizione di svantaggio psicosociale è spesso correlata ad altri fattori di rischio, come fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa e deficit alimentari, si può comprendere quanto rilievo possa assumere un intervento medico che tenti di modificare le situazioni di disagio sociale o la vera e propria sofferenza psichica.
Fino ad ora gli studi epidemiologicici sui determinanti psicosociali sono rimasti estranei alla pratica clinica: fanno testo in tal senso le carte del rischio CV, che ne ignorano l’esistenza, al pari dei fattori alimentari. Lo studio Interheart rappresenta una novità e sollecita l’interesse dei clinici per questi dati anamnestici, che d’ora in avanti non possono più essere ignorati, anche perché in caso contrario la loro significatività statistica è tale da configurare una sorta di malapratica.
È realistico che il Mmg inserisca nell’approccio di routine al rischio cardiovascolare anche le condizioni psicosociali? I risultati dello studio Interheart, decisamente probanti in quanto supportati da intervalli di confidenza assai solidi, possono essere trasferiti alla clinica? Ormai le mappe della disuguaglianza sono precise come quelle satellitari del territorio e reclamano un nuovo approccio globale centrato sull’epidemiologia del malessere sociale e di vita della gente, che troppo spesso rimane occulto o non viene modificato anche quando vi sarebbero le risorse per farlo. Il primo passo verso l’evitabilità passa attraverso la percezione del problema, che si concretizza operativamente in una definizione pragmatica del disagio psicosociale. Ma lo studio Interheart ci mostra un dato altrettanto chiaro e incontrovertibile: che il peso sulla condizione clinica dei fattori psicosociali, oltre ad essere molto elevato, si mantiene costante in tutti i 52 Paesi monitorati. Il che significa che non basta avere migliori condizioni economiche o generali perché la loro incidenza si riduca tra le fasce più deboli. È per questo che la medicina di famiglia, la più vicina ai pazienti, deve cominciare a trasferire nella clinica quotidiana i fattori di rischio psicosociali, passando dalle parole ai fatti.

Mmg: un passo avanti


Vittorio Caimi, presidente dello CSeRMeG, ha spiegato alcuni dei passaggi possibili, già allo stato attuale delle conoscenze e delle politiche pubbliche, per superare la distanza che si registra tra dimensione sociale e dimensione clinica anche nella medicina di famiglia, prima responsabile della relazione terapeutica difficile che si può instaurare tra un Mmg e i suoi pazienti svantaggiati.
“Vorrei partire da alcune iniziative abbastanza semplici, prendiamo, per esempio, la cartella clinica. Se si raccolgono i dati sul contesto psicosociale del paziente, come il tasso di scolarità, il reddito, questi di prassi sono relegati in un box tra le “informazioni varie” della cartella mentre credo che, alla luce delle evidenze scientifiche che si moltiplicano, sarebbe importante collocarli tra i problemi “attivi” del paziente, nella prima parte della sua scheda. Operare questo capovolgimento, incorporando tra i dati sensibili quelli di tipo sociale, ci consentirebbe di tenerne conto quanto meritano. Le ricerche ci hanno mostrato che il rischio di tipo sociale è rilevante perché prognosticamente è molto forte”.
Caimi ha indicato due tra i principali problemi di relazione e di cura che i Mmg incontrano con i pazienti svantaggiati: innanzitutto la bassa compliance dovuta per lo più alla bassa scolarità, ma anche il fenomeno dell’inverse care (cura al contrario), ossia del moltiplicarsi degli accessi al sistema da parte di chi ne ha meno bisogno. “Quando si incontra un paziente con rischio psicosociale - ha sottolineato - è importante che il Mmg metta in campo strategie aggressive: un approccio intensivo, non soltanto farmacologico, già molto importante, ma anche relazionale, al pari di quando si confronti con un forte rischio clinico”.
Secondo Caimi - che mutua un’espressione della relazione di Gianni Tognoni al convegno CSeRMeG - sarebbe giunto il momento di contribuire insieme ad elaborare un’epidemiologia dell’evitabilità. “Il primo strumento elementare che - sottolinea Caimi - penso possa contribuire è di far uscire i dati di contesto socioeconomico dal livello basso dell’anagrafica del paziente per inserirli nel livello alto dei problemi di salute, segnando così un salto qualitativo importante nella quantità e qualità dei dati epidemiologici di contesto”.
Il Mmg deve convincersi di trovarsi di fronte a “situazioni modificabili in meglio - continua Caimi - non a livello cosmico, di palingenesi, ma soprattutto quotidiano per cui è ora di mettere fine al rimpallo con la società, cui ha partecipato anche tutta la comunità scientifica”. Il passaggio successivo per il Mmg “sarà quello di rendersi conto come meglio collaborare con la rete formale e informale di promozione dei diritti già attiva sul territorio, non soltanto a livello sociosanitario, ma anche squisitamente sociale, a partire dalla famiglia di provenienza fino ai servizi”.
La sfida sempre più importante lanciata alla sensibilità sociale del Mmg - spiega Caimi - viene soprattutto dai migranti “portatori, almeno nella mia esperienza, di problemi di accesso ai servizi dovuti alla difficoltà linguistiche, ma soprattutto alle difficoltà di relazione con i medici legate alle aspettative diverse di benessere e a una diversa percezione dei sintomi. Semplificazione della burocrazia, dove non è necessario essere stranieri per sentirsi estranei, mediazione culturale e linguistica con l’aiuto delle stesse comunità migranti e dei nostri pazienti, sono tre passaggi imprescindibili nella costruzione di un’immagine più vera, più attenta alla condizione complessiva del malato, e di risposte sempre più conseguenti e appropriate”.

Ricerche future


CSeRMeG tenterà di fornire un contributo a un’epidemiologia più accurata del rischio sociale inserendo nell’ambito della Ricerca R&P (Rischio e Prevenzione, studio sulla rilevanza protettiva degli Omega 3 che oggi è in fase di reclutamento e che durerà oltre 5 anni) un campione di popolazione con queste caratteristiche. Anche nel rapporto con l’Università di Monza che il CSeRMeG coltiva da diversi anni, Caimi annuncia che si tenterà di proporre approcci diversi al paziente con fragilità sociale.
Il passaggio più formale dove testare una prima ipotesi di sintesi e proposta su dati di questo tipo si porrà, senza dubbio, in una delle sessioni del congresso Wonca 2006, l’appuntamento clou della “società delle società scientifiche europee della medicina generale” focalizzato, in particolare, sul problema delle disuguaglianze letto in una chiave Nord/Sud ma non soltanto. “Vorremmo dimostrare - conclude Caimi - che partendo dai livelli macro, attraverso una modalità d’analisi rigorosa, è possibile riscontrare una fragilizzazione progressiva della popolazione cui, soprattutto come medici di famiglia, dobbiamo essere pronti a rispondere qui e ora per non doverci condannare a una sensazione di reciproca insoddisfazione tra Mmg e propri pazienti.


Comunicazione pubblica e salute: il caso svizzero
Il Canton Ticino, per affrontare il problema dei determinanti sociali negativi rispetto alla salute dei propri cittadini, ha promosso un progetto quinquennale, articolato in giornate pubbliche e opuscoli informativi, per mettere in relazione il loro tipo di lavoro, la classe sociale e la salute. Inoltre è stata condotta una ricerca, per valutare se la popolazione è d’accordo o meno sul fatto che un basso reddito influisce negativamente sulla speranza di vita.
Nel 2000 il campione di 1.000 persone si è detto totalmente in disaccordo in un caso su due e d’accordo in appena il 18%.
Alla fine della campagna informativa l’intervista è stata riproposta e i dati sono cambiati: “Le risposte che abbiamo avuto quest’anno ci dicono che appena il 27% non ritiene che vi sia un legame tra reddito e salute, a dimostrazione che campagne efficaci si possono fare e portano effetti”, ha sottolineato Gianfranco Domenighetti, direttore del Servizio sanitario Canton Ticino, intervenuto a Bologna al Compa. Secondo Gianni Tognoni, direttore del Consorzio Mario Negrino Sud, la comunicazione però deve essere differenziata in base a target ben definiti, altrimenti, “in maniera paradossale, si aggrava la disuguaglianza e tutto ciò che essa comporta sulla salute: le classi che stanno meglio recepiscono il messaggio e ne traggono giustamente vantaggio, mentre le altre non riescono a cogliere l'informazione e non superano i problemi di salute”.