M.D. numero 36, 30 novembre 2005


Editoriale
Assistenza: le possibili frontiere regionali

Paziente che va, paziente che viene: è la dura legge della mobilità sanitaria, per la quale centinaia di pazienti ogni anno nel nostro Paese “migrano” alla ricerca di centri d’eccellenza, o, ancora più spesso, di risposte pure elementari ai propri bisogni di salute, che non riescono a ottenere sul proprio territorio di residenza. Secondo la Legge Finanziaria 2006, però, almeno fino al momento in cui scriviamo, ogni Regione dovrebbe porre un tetto massimo ai rimborsi riconosciuti alle strutture sanitarie per i pazienti che vanno a curarsi in una Regione diversa da quella di appartenenza, ad eccezione delle prestazioni oncologiche e quelle di alta specialità.
Un provvedimento che, anche secondo il Tribunale per i Diritti del Malato, limita la libertà di scelta dei cittadini e non permette alle piccole Regioni di appoggiarsi a centri meglio attrezzati per le alte specializzazioni, migliorando il rapporto costo-beneficio delle prestazioni. I dati ufficiali sulla mobilità parlano chiaro: la gran parte delle Regioni che producono migrazioni sanitarie sono quelle del Sud, e in particolare Campania, Sicilia, Sardegna, Basilicata, Calabria.
Una parte di questi spostamenti è sicuramente legata alla grande capacità di attrazione di alcuni centri specializzati, ma una parte consistente è frutto dell’enorme distanza culturale, organizzativa e di risorse esistente tra le Regioni. Si parla spesso di spostamento delle cure sul territorio, di governance sanitaria delle nostre Regioni
a partire da una maggiore interdisciplinarietà della medicina di famiglia, di “ospedali di comunità” e di eccellenza. Ma i dati sulla mobilità dimostrano chiaramente che non tutti i territori sono all’altezza della domanda di salute dei propri cittadini: scorrendo i dati di Cittadinanzattiva e soffermandoci solo su quelli relativi alla radioterapia scopriamo che sempre al Sud mancano il 50% delle strutture necessarie e ci sono attese anche di 90-120 giorni.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che nemmeno le risorse messe in campo dalla nuova Convenzione per la medicina generale sono sufficienti per remunerare almeno la cornice nazionale di questo impegno crescente per i Mmg. Per Cumi-Aiss, infatti, sarebbe necessaria una forte iniziativa politica e sindacale sull’accordo di lavoro dei medici
del territorio, di medicina generale, di specialistica ambulatoriale e di pediatria di libera scelta nei confronti della parte pubblica rappresentata dalla Sisac per proporre una seria rivalutazione economica delle convenzioni. Secondo le stime della Cumi sarebbe indispensabile in Finanziaria lo 0.7% in più rispetto allo stanziamento previsto, cifra della quale, al momento, le Regioni non dispongono. Se non si interviene rapidamente in un accordo di lavoro, che in più occasioni è stato definito difensivo e di transizione, il rischio - mette in guardia
il sindacato - è che tale accordo possa diventare un vero e proprio capestro per i medici di cure primarie. Ma anche per i loro pazienti, con un biglietto di sola andata per il triste gioco dei quattro cantoni del Ssn.