M.D. numero 36, 30 novembre 2005

Diario ambulatoriale
Il lavoro in team in medicina di famiglia - Cronaca di una settimana
di Giuseppe Maso, Medico di famiglia - Venezia, Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine
Alessandra Semenzato, Infermiera di famiglia - Venezia Docente Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine

Lunedì
Oggi ho invitato Giovanna a trovarsi un altro dottore. È una giovane donna in buona salute che da anni frequenta il nostro ambulatorio. Non ha alcunché, ma guardando la cartella ho visto che è stata in ambulatorio una miriade di volte, presentando i problemi più disparati la cui causa, a suo dire, è sempre stata da attribuire ad altri. Ai genitori che non la capiscono, al datore di lavoro che non la valorizza, al fidanzato che non le sta vicino, alle mille cose della vita. Ha avuto decine di assenze dal lavoro e il suo atteggiamento è costantemente da vittima.
Quasi sempre, dietro ai frequentatori abituali è presente un disagio psicologico o sociale e per questo abbiamo cercato di aiutarla in tutti i modi. L’abbiamo confortata, l’abbiamo appoggiata a uno psicologo, abbiamo soddisfatto le sue richieste di esami e visite specialistiche. Sempre abbiamo cercato di negoziare le scelte e concordare le eventuali terapie.
Ma oggi abbiamo detto basta. Vi è un punto oltre il quale non bisogna andare. Il modello paternalistico, giustamente, va abbandonato, ma non può essere sostituito dal servilismo o addirittura dalla schiavitù. Un professionista non può diventare vittima di un suo assistito. Alla richiesta, quasi un comando, di un’impegnativa per una visita urgente dall’otorino per delle vertigini inesistenti abbiamo detto basta. Sicuramente Giovanna troverà conforto e comprensione e ancora una volta saremo criticati perché delle legittime richieste di un cittadino non sono state soddisfatte.

Martedì

Oggi ci saranno i funerali di Sante, aveva 91 anni appena compiuti.
Per tre anni consecutivi tutti i giorni prima di iniziare l’ambulatorio mi sono recata al suo domicilio per praticargli l’insulina, per preparargli la terapia orale, per accertarmi del suo stato di salute. Per tre anni mi sono presa cura di lui, ho ascoltato il suo disagio, le sue lamentele. Ma anche i suoi ricordi, la guerra, il lavoro, le figlie, così come tutte le sue battute ironiche. Oggi io non ci sarò ai suoi funerali; purtroppo è un periodo troppo intenso per l’ambulatorio per permettermi di mancare. Però non potergli dare l’ultimo saluto mi rattrista: è un po’ come tradire la sua fiducia e il suo affetto. .

Mercoledì

Tra i compiti e le abilità di un medico di famiglia c’è anche quello di scegliere le indagini diagnostiche più appropriate al caso che sta affrontando e sapere indicare eventualmente il centro o lo specialistica per una diagnostica di secondo livello. È anche ovvio che dopo decenni di professione si conoscano i centri di eccellenza e in ogni caso le possibilità tecniche degli ospedali e dei singoli reparti della zona.
Cerchiamo quindi di inviare il paziente nel posto dove si possono affrontare nel modo migliore i suoi problemi. Anche questa abilità però presenta delle insidie. Spesso si ha l’impressione che nel consigliare un reparto al posto di un altro il paziente pensi che abbiamo qualche interesse personale. Talvolta può succedere che la nostra opinione sia tenuta in conto molto minore di quella di un amico o di un parente. Altre volte succede, invece, che il paziente si rivolge a un reparto o ad un ospedale dove ha qualche conoscenza e può così farsi “raccomandare” per un accesso più veloce. Dove conoscono qualcuno pensano di essere curati meglio. Tutto questo ci induce a scegliere i pazienti a cui dare consigli e in ogni caso ci mette a disagio.
Antonio era venuto nel nostro ambulatorio la settimana scorsa con una sintomatologia compatibile con un’ischemia cardiaca. Abbiamo eseguito durante la visita un elettrocardiogramma e gli enzimi e abbiamo iniziato un trattamento farmacologico. Gli abbiamo consigliato una visita cardiologica in un centro attrezzato per eseguire un’indagine angiografica. Abbiamo preparato una relazione sul suo stato di salute e abbiamo scritto al collega il motivo per cui gli abbiamo inviato il paziente. Naturalmente Antonio si è recato da un’altra parte, in un posto dove il genero conosceva il primario.
Il cardiologo ha confermato la terapia e ci ha rinviato il paziente con il consiglio di eseguire una coronarografia in un centro attrezzato per farla. “Bene Antonio, ricominciamo tutto daccapo: ha conservato la lettera che le avevo consegnato la settimana scorsa?”

Giovedì

Ieri Gabriella si è recata in pronto soccorso, era sera, aveva febbre e aveva un dolore addominale a barra; era molto sofferente e i familiari erano veramente preoccupati.
In pronto soccorso ha eseguito un ECG che evidenziava una tachicardia sinusale e degli esami urgenti che hanno segnalato: glicemia 270 mg/dl, creatinina 2.9 mg/dl e un’ipokaliemia. La signora è stata inviata in visita internistica ed è ritornata in pronto soccorso; l’internista ha consigliato alcuni accertamenti per il diabete e la paziente è stata rinviata a domicilio con diagnosi di “iperpiressia in sospetta infezione delle vie urinarie e iperglicemia non nota prima”.
Gabriella stamane è qui da noi, pallida con un dolore addominale diffuso, visibilmente sofferente.
Abbiamo una paziente diabetica (diabete secondario?) con insufficienza renale e con un dolore addominale di natura da determinare e febbricitante. L’esame delle urine mostra un’abbondante leucocituria, c’è il segno di Giordano positivo a destra e la glicemia è sempre alta. Programmiamo un’ecografia dell’addome per stasera, somministriamo dell’insulina rapida e degli antispastici, idratiamo la paziente e iniziamo una terapia antibiotica. Prescriviamo dei controlli ematochimici per domani mattina.
Trattiamo la paziente pensando alle cose più probabili, ma non possiamo sentirci tranquilli. Contatteremo la signora anche oggi pomeriggio e domattina.
Ma ci chiediamo per quale motivo Gabriella non abbia iniziato il percorso diagnostico e terapeutico in ambiente protetto.

Venerdì

Oggi stiamo lavorando al disegno di ricerca per un paio di tesi di due studenti in medicina che verranno da noi nell’ambito del progetto “Socrates”. Si tratta di un progetto che prevede scambi di studenti tra le diverse Università europee. Non è la prima volta. Abbiamo già collaborato alla tesi di numerosi studenti in medicina e altrettanti in scienze infermieristiche.
Anche noi, come molti altri colleghi in Italia, siamo coinvolti nell’insegnamento sia pre che post-laurea e siamo impegnati nella ricerca. Facciamo tutto questo perché non può esistere una disciplina che non si insegna e che non produca conoscenza.
Senza queste attività siamo sicuri che saremmo travolti dalla routine e diverremmo sterili come dei rami secchi.
Spesso però ci viene in mente la nostra condizione: noi medici e infermieri di famiglia siamo come dei paria, non abbiamo tempo protetto per queste cose (che sono fondamentali), dobbiamo rubarlo al riposo, non abbiamo possibilità di carriera e tantomeno mai ci siamo sentititi dire grazie. Pensiamo ai nostri colleghi europei con biblioteche, attrezzature, segretarie e una remunerazione per quello che fanno.

Sabato

È bello prendersi cura dei figli dei ragazzi che curavamo anni fa. È veramente un’esperienza grande vedere che sono diventati adulti e che si fanno carico di responsabilità. Il nostro lavoro è un continuo ricordarci lo scorrere del tempo. Bambini che diventano adulti, bellissime ragazze che sfioriscono con il tempo, famiglie che si formano e adulti che invecchiano.
Generazioni come lievissime onde di un mare liscio e piatto, lentamente, ma inesorabilmente, si sciolgono sul bagnasciuga.
Una costante sensazione di melanconia accompagna il nostro lavoro quotidiano. Facciamo di tutto per rallentare la velocità di queste onde; trattiamo le malattie e agiamo sui fattori di rischio.
Giochiamo con arte tutte le nostre carte, ma il banco vince sempre.