M.D. numero 35, 23 novembre 2005

Focus on
Viene prima la governance o il medico di famiglia?
di Monica Di Sisto

Governance: una parola che accompagna da qualche anno il ridisegno della nostra sanità e che poggia essenzialmente su due pilastri: la ricerca di una sempre maggiore appropriatezza e la definizione di percorsi terapeutici che emergano dalle evidenze di salute, ma che siano finalizzati anche all’uso ottimale delle risorse a disposizione. La clinical governance, come riequilibrio delle competenze, delle responsabilità e delle spese lungo tutta la rete della salute, dovrebbe aprire anche ai Mmg uno spazio adeguato al proprio ruolo quotidiano di punti di contatto del sistema più vicini ai pazienti, ponendoli finalmente al centro del Ssn per pesi e responsabilità, ma anche per riconoscimenti e competenze. Invece, nella realtà professionale accade proprio il contrario.

Un grido d’allarme viene lanciato da Giuseppe Maso, Past president della Società scientifica AIMEF e responsabile dell’insegnamento della medicina generale all’Università di Udine: “la Medicina di Famiglia, la specialità più esercitata in Italia, orfana (unica al mondo) di insegnamento accademico riconosciuto, viene ormai quotidianamente defraudata di funzioni e compiti. Contrariamente a quanto dovrebbe accadere e a ciò che sta avvenendo in tutta Europa, lo spazio di manovra del medico di famiglia (MdF), all’interno del Sistema sanitario, diventa sempre più stretto. I MdF italiani non possono più prescrivere ciò che può prescrivere un infermiere nel Regno Unito, né tanto meno possono farsi carico di patologie che sono universalmente riconosciute come tipiche di questa disciplina”.
Quella che Maso descrive è una una vera e propria emergenza professionale che sembra passare del tutto inosservata. “Non ci sono reazioni - sottolinea infatti Maso - né da parte delle Società scientifiche né da parte della FNOMCeO, che dovrebbero invece per loro natura alzare gli scudi e dare battaglia”. Una battaglia obbligatoria per la libertà professionale.

Un ruolo dicotomico


Il Servizio Sanitario Italiano, con il D.Lgs 502/92 e le sue successive modifiche ed integrazioni, si configura come sistema di aziende territoriali che, tenendo in conto l’obiettivo finale previsto dalla Costituzione italiana di migliorare lo stato di salute, ma anche la tutela della salute dei cittadini, mira, come tutte le aziende, al recupero dell’efficienza del sistema, a ridurre i costi di produzione, ma anche a migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie. Il settore del sistema nel quale il medico di famiglia opera è l’Azienda Sanitaria Territoriale, che deve essere efficiente, dunque produrre prestazioni sanitarie “corrette” a parità di risorse economiche, e quindi in grado di tenere il bilancio in pari; deve produrre in qualità, essendo in grado di soddisfare le esigenze espresse e inespresse del cittadino-paziente garantendo prestazioni adeguate e appropriate.
In questo sistema il MdF è, dunque, chiamato oggi a interpretare due ruoli molto diversi tra loro: quello di garante della salute del proprio paziente, ma anche di attore economico. Le prestazioni che deve garantire al proprio paziente, infatti, debbono essere, per legge, non soltanto soddisfacenti e giuste per l’assistito, ma anche economicamente sostenibili e appropriate.
Ed è in un tale contesto che si è sviluppata la definizione di clinical governance. Essa comparve nel 1998 sul British Medical Journal, come proposta degli studiosi Scaly e Donaldson. “La clinical governance - scrivevano - è un sistema attraverso cui le Aziende sanitarie sono responsabili del continuo miglioramento della qualità dei loro servizi e della salvaguardia di elevati standard di assistenza attraverso la creazione di un ambiente in cui possa svilupparsi l’eccellenza dell’assistenza sanitaria”. Per clinical governance si intende, in sintesi, l’utilizzo di una modalità di gestione nell’ambiente sanitario che contemperi quattro esigenze: la responsabilità rispetto al paziente, ma anche rispetto alle risorse, la trasparenza, la partecipazione e l’etica del lavoro. È la clinical governance che dovrebbe dunque poter contemperare esigenze economiche e qualitative del sistema, ma purtroppo la realtà dimostra che non vi riesce.

Evidence based practice


Oltre il 34% delle prestazioni sanitarie erogate, secondo gli ultimi dati resi noti dell’associazione Fiaso, che rappresenta 150 aziende ospedaliere e sanitarie (più della metà di quelle presenti nel nostro Paese) è inappropriato. Sempre secondo Fiaso, qualità e quantità delle prestazioni non sono omogenee su tutto il territorio nazionale. Se in tutti i paesi industrializzati la correlazione tra crescita economica e incremento della spesa sanitaria si è sviluppata in modo costante e lineare, nel nostro Paese, oggi, la precarietà della situazione economica e la difficoltà della finanza pubblica obbligano a considerare in modo esplicito l’apparente contraddizione tra tutela della salute e crescita del settore a causa dell’incremento dei costi e della progressiva non sostenibilità delle spese da parte del sistema pubblico. Fino ad oggi i governi che si sono susseguiti hanno ritenuto che si potesse produrre un mantenimento o addirittura un incremento del prodotto salute, senza confliggere, a parità di occupazione e di costi, con il fatturato dell’industria salute, grazie ad una razionalizzazione del sistema, ad una governance federalistica territoriale, a un incremento dell’efficacia e dell’efficienza. La priorità è diventata dunque integrare il governo clinico con il governo amministrativo ed economico.
Per favorire l’incastro tra i diversi pezzi del sistema, assicurando che i pazienti siano trattati con il maggior grado di appropriatezza e che il loro viaggio all’interno del sistema sia il più possibile rapido ed efficiente, sono stati prodotti via via strumenti professionali, di legge e di bilancio, che indirizzassero con sempre maggiore forza pazienti e professionisti della salute in questa strada. Le Società scientifiche, chiamate all’analisi dell’attività professionale e alla ricerca di strumenti utili nella pratica quotidiana, hanno prodotto studi, ricerche, raccomandazioni e linee guida che hanno accompagnato anche i medici di famiglia italiani in questo percorso di governance. Si è così venuta strutturando una evidence based practice, una medicina di famiglia basata sulle prove di esito, che mette al centro della propria attenzione l’efficacia e l’appropriatezza clinica delle prestazioni. Non si può negare che essa ha prodotto comunque dei benefici sia per l’economia del sistema sia per la salute dei pazienti, ma i sempre più frequenti casi di burn out, di stress e di insoddisfazione professionale dei MdF, coniugati a casi clamorosi di non trasparenza di quegli stessi strumenti (come le linee guida) che dovrebbero guidare questi professionisti verso l’eccellenza professionale, revocano in dubbio le scelte operate a livello politico, di bilancio, ma anche scientifico.

Liberate il medico di famiglia


Piano sanitario nazionale, convenzione per la medicina generale, Note Aifa, leggi europee, nazionali e regionali sulla professione e sull’economia, pronunciamenti delle autorità di garanzia, linee guida, principi legati a deontologia e professione sono soltanto alcuni dei testi con forza di legge che indirizzano oggi la pratica dei medici di famiglia, ma che rischiano anche di ridurre la sua libertà professionale, la sua capacità di offrire ai propri pazienti i farmaci e le opportunità di cura che ritenga più adatti alla loro storia clinica.

Un esproprio di competenze


“Negli anni il MdF si è visto sfilare tutta una serie di competenze, che sono state ricondotte ad automatismi basati sull’evidenza - precisa Giuseppe Maso - che ne limitano la libertà operativa e prescrittiva, senza che questo sia avvertito come un problema da discutere all’interno della comunità medica e, in particolare, dalle Società scientifiche”. Il Past president dell’AIMEF evidenzia alcuni casi di esproprio, abbastanza evidenti.
Primo caso: l’obbligatorietà di un piano terapeutico per la prescrivibilità dei farmaci. Per garantire l’efficacia e l’efficienza del sistema, sulla carta, è stato reso obbligatorio per legge un piano terapeutico formulato in una struttura specialistica per prescrivere molecole di nuova introduzione nel Prontuario Terapeutico. “Ciò significa per esempio - approfondisce Maso - che il medico di famiglia non ha più a disposizione i nuovi farmaci per la cura del diabete o della sindrome metabolica - come l’insulina di nuova generazione e i glitazoni - e deve quindi delegare, obbligatoriamente, la cura dei diabetici ai centri ospedalieri. Eppure il diabete è la classica materia da medicina di famiglia, considerata la necessaria continuità assistenziale, la necessaria padronanza della storia clinica e l’osservazione della familiarità per una vera prevenzione. Eppure, paradossalmente il MdF non può più gestire in proprio. Lo stesso avviene per una pomata cortisonica: un eczema deve essere inviato per forza al dermatologo; un anziano con deficit cognitivo deve essere inviato dal geriatra, e così via”.
Il secondo modello di esproprio è messo in atto con l’obbligatorietà della visita specialistica per il riconoscimento dell’esenzione per patologia.
“Un MdF - rivela ancora Maso - anche se specialista, deve per forza rivolgersi a una struttura pubblica se vuole trattare una patologia della tiroide, una dislipidemia, un asma. In caso contrario, il paziente dovrebbe farsi carico in toto della spesa per accertamenti e farmaci. Un medico di famiglia non può più prescrivere un ciclo di ionoforesi o di massaggi senza rivolgersi obbligatoriamente ad un fisiatra e la lista potrebbe continuare a lungo”.
La medicina di famiglia italiana sembra essere stata esautorata della sua funzione principale: farsi carico delle patologie frequenti. “Il concetto di sussidiarietà - sottolinea Maso - è ignorato e i principi di qualità, equità, pertinenza e costo-efficacia, fondamentali nel governo di un Ssn a vocazione pubblica, sono praticamente sconosciuti. Tutto il Servizio sanitario nazionale perde così di efficacia e la medicina di primo livello viene scomposta e delegata, frammentata, al secondo livello, a sua volta impoverito e impreparato”.

L’appello


Si tratta, dunque, di una situazione drammatica che richiede un allarme importante. “Questa situazione da sola sarebbe più che sufficiente affinché le Società scientifiche della medicina generale italiana unissero le loro forze - auspica Maso - e lottassero insieme per la rinascita professionale di questa disciplina. Ma, purtroppo, non si ode alcuna voce e temo che la mia sia troppo flebile”.


Luci e ombre sulle linee guida Chi conduce i conducenti?
215 linee guida mediche ufficiali made in Usa, tra le quali solo 31 sono risultate libere da legami con aziende farmaceutiche, ma solo 90 contenevano dettagli sul conflitto di interessi degli autori. Il sasso nello stagno lo ha lanciato la rivista Nature, che ha svelato l’inatteso retroscena dei testi considerati più autorevoli nella medicina contemporanea.
E il British Medical Journal ha chiesto ad alcuni autorevoli esperti di commentare la vicenda. I ricercatori hanno così analizzato 215 linee guida ufficiali sull’utilizzo di farmaci. Su un totale di 685 autori implicati nella stesura delle linee guida prese in esame è risultato che 445 autori (65%) non hanno dichiarato alcun conflitto d’interessi, 143 (21%) hanno incarichi di consulenza con aziende farmaceutiche, 153 (22%) usufruiscono di fondi per la ricerca garantiti da aziende farmaceutiche, 103 (15%) sono collaboratori di fiducia di aziende farmaceutiche, 16 (2%) possiedono azioni di aziende farmaceutiche e infine 10 (1%) riferiscono di un conflitto di interessi di natura diversa. Nell’articolo si cita anche un caso ‘tipico’: il Center for Science in the Public Interest di Washington DC ha scoperto che nel caso di alcune linee guida per l’ipertensione redatte nel 2004 solo un autore ha denunciato un conflitto di interessi, ma dopo successivi approfondimenti si è scoperto che altri 4 autori delle linee guida in questione avevano usufruito di finanziamenti per la ricerca da parte di aziende farmaceutiche produttrici di farmaci antipertensivi. Merrill Goozner del Center for Science in the Public Interest ha spiegato: “Non sono affatto sorpreso dai risultati di questa inchiesta. Mi risulta che molti medici non rivelino i loro legami
con le industrie farmaceutiche persino se la stesura di linee guida o la pubblicazione di studi su riviste lo richiede. Finché non sarà prevista una punizione per questo comportamento scorretto sarà sempre così”.

Bibliografia. Hopkins J. Doctors who write guidelines often have ties to the drug industry. BMJ 2005; 331:982. Nature 2005; 437:1070-1.