M.D. numero 35, 23 novembre 2005


Editoriale
La salute? È sempre più appannaggio mediatico

Arriva il “medico in abbonamento”, l’ultima moda made in Usa che rischia di mettere in discussione per l’ennesima volta tutti i principi professionali e deontologici conosciuti e praticati sino ad oggi.
Con il pagamento di una sorta di forfait annuale che va da un minimo di 1.500 a un massimo di 20 mila dollari ci si può assicurare un “boutique doctor”, un medico “su misura”, a disposizione dei propri abbonati 24 ore su 24, attenti e umani per contratto, che a seconda della tariffa che si è disposti a pagare sono pronti a dedicare almeno 30 minuti del proprio tempo per ascoltare, visitare e accompagnare nel percorso terapeutico considerato ottimale ciascuno dei propri pazienti.
Per quanto riguarda il costume sanitario italico, ben diverso nel bene e nel male da quello USA, è un fatto che in alcune città italiane, come per esempio Roma, stanno comparendo nelle vie più eleganti alcune boutique, per il momento dedicate alle cure odontoiatriche, nelle quali, proprio come in una beauty farm diurna, si entra e si acquista una cura dentale con la stessa modalità con cui si acquisterebbe un massaggio estetico, un’acconciatura alla moda, una seduta con il truccatore.
Con i boutique doctor però la questione è più complessa, perché per abbonamento i pazienti non presumono di acquistare soltanto prestazioni di qualità in ambienti confortevoli e facilmente raggiungibili, ma di acquistare il tempo e l’umanità stessa del proprio medico.
Il segretario nazionale della Fimmg, Mario Falconi, sollecitato dalla stampa sulla notizia, ha risposto a giusta ragione che non abbiamo nulla da invidiare agli Stati Uniti, tantomeno da imitare e che bisognerebbe essere orgogliosi della nostra assistenza sanitaria, ma è evidente che la provocazione statunitense non può che farci riflettere. Riflettere sulla qualità percepita del servizio sanitario, sullo spostamento culturale dal concetto di salute a quello di benessere. Un concetto che rischia di indurre nei pazienti la ricerca di una sorta di “estetismo sanitario” fatto di medici famosi e televisivi, di camici d’alta moda e studi iper-accessoriati e di confondere ciò
con la qualità e l’essenzialità delle cure. Non di meno bisognerebbe soffermarsi sul consumismo farmaceutico che spinge il paziente a tentare di imporre al proprio medico la prescrizione del farmaco appena annunciato, o della diagnostica presentata in diretta nel talk show della domenica sera. Se passa il concetto che “ogni cura può essere appropriata, basta che non gravi sul bilancio pubblico”, la deriva non sarà arginabile e ci si ritroverà presto a discutere della salute degli italiani più nei salotti mediatici che in Parlamento.