M.D. numero 34, 16 novembre 2005

Focus on
Cultura antropologica come competenza del medico di famiglia
di Massimo Bisconcin - Medico di Famiglia, Quarto dıAltino (VE) , Dipartimento di RicercaAIMEF

La medicina di famiglia ha, più o meno consapevolmente, utilizzato l’antropologia praticamente da sempre, ma ancora manca un vero e proprio approccio antropologico medico disciplinarmente integrato e trasmissibile

La medicina di famiglia è naturalmente propensa e adatta all’approccio individualizzato. Disciplinarmente tratta persone e non necessariamente pazienti, approccia sofferenti prima ancora che essi divengano malati veri e propri, quando il motivo del contatto è ancora un “problema” e non una “diagnosi” e, anzi, nella maggioranza dei casi si esaurisce spontaneamente o comunque rimane in un ambito non codificabile, anche permanentemente. Il vero medico di famiglia, soprattutto prima che l’inquinamento normativo raggiungesse gli attuali livelli di tossicità, è quindi abituato ad un approccio destrutturato.
C’è tuttavia la necessità di “dare ordine al disordine”, innanzitutto a livello di percezione culturale. È inoltre importante che questo processo di dimostrazione disciplinare raggiunga legislatori o amministratori da un lato e professionisti non medici di famiglia dall’altro, ai quali, sfortunatamente più spesso che mai, i primi ricorrono per consulenze normative, senza mai ascoltare chi fa la Medicina di Famiglia. Per esempio, “approccio destrutturato” non significa affatto “approccio casuale”, quasi che la destrutturazione fosse sinonimo di “incontro qualsiasi” in un contesto qualsiasi e operabile da un qualsiasi “generico” (nel senso di non formato) medico od operatore sanitario.
Approccio destrutturato significa adottare tecniche specifiche di contatto che vanno ben oltre il tradizionale approccio clinico anamnestico-semeiologico, che tengano conto della centralità della persona. Centralità ha una specifica connotazione gerarchica, in medicina di famiglia: è il medico che si deve sintonizzare sul suo paziente in modo totale e non viceversa; è il medico che deve preoccuparsi di farsi non solo capire ma comprendere, ed è ancora il medico che deve decodificare messaggi più o meno voluti o coscienti.
Centralità della persona e attenzione al contesto di vita e di provenienza, non è puro manierismo o atteggiamento “politicamente corretto”, quanto erogazione di vera e propria “buona medicina”, con tutte le sue regole e pratiche specifiche da insegnare ed apprendere.
Per mettere “ordine nell’apparente disordine” alla disciplina Medicina di Famiglia serve anche l’antropologia.
Essa è stata definita come la più scientifica nell’umanesimo e come la più umanistica tra le scienze, e quindi, questo suo dilemma epistemologico ben si attaglia a sostanziare anche il nostro.

Questione di consapevolezza


In realtà, la medicina di famiglia ha, più o meno consapevolmente, usato l’antropologia praticamente da sempre, ma ancora manca un vero e proprio approccio antropologico medico disciplinarmente integrato e trasmissibile.
L’antropologia medica studia come le persone di differente cultura, o gruppo di appartenenza sociale, interpretano e spiegano le cause di malattia; studia inoltre come queste popolazioni credano e si affidino ai vari trattamenti terapeutici in caso di malattia. Si occupa inoltre, di come queste credenze o pratiche interferiscano con la vita biologica, psicologica e sociale dell’organismo, sia in salute che in malattia.
Una persona educata all’occidentale e al positivismo cartesiano potrebbe essere facilmente indotta a negare che la sua vita percettiva profonda e le sue credenze (che comunque possiede, anche se profondamente “laiche”) abbiano una qualche inferenza nelle sue decisioni attive verso la salute e la malattia, quasi che le acquisizioni biomediche (provate o solo sospettate) cancellino per palese potenza logica i suoi connotati antropologici. Dal momento che è la cultura (dominante o no) a condizionare i comportamenti, è comunque evidente che tutti noi siamo soggetti antropologicamente valutabili. Per tale ragione l’antropologia medica deve entrare stabilmente e strutturalmente a far parte del bagaglio disciplinare e culturale della medicina generale.

Sfida multietnica


Un’altra spinta in tal senso arriva dalla sfida multietnica alla quale noi europei siamo sottoposti. Anche se in Italia il fenomeno è recente, risulta molto più evidente dato il rapido incremento dei migranti e l’ancora diffusa presenza di persone senza regolare permesso di soggiorno. I dati Istat (tabella 1) ci dicono che gli stranieri sono più di due milioni, l’ultima indagine della Caritas ne stima quasi tre milioni. Questo comporta una quotidiana e significativa presenza in ambulatorio di persone di differente gruppo etnico. Al medico di famiglia arrivano quotidianamente persone che non appartengono al ceppo culturale prevalente della zona in cui esercita la sua professione. La diversità culturale agisce comunque su cerchi concentrici: esiste una sempre più forte mobilità regionale o nazionale ed europea (tabella 2).
E pur essendo l’Europa un unico soggetto (o quasi) le diversità (linguistiche, genetiche e culturali) sono significative. Ovviamente, nei cerchi concentrici più esterni, stanno le diversità culturali poste dai migranti provenienti da altri continenti. La domanda quindi diventa se tutta questa diversità culturale interferisca significativamente con la pratica medica e, se sì (come sembra), in quale modo. Appare evidente che il medico debba acquisire abilità e competenze culturali ben definite e non legate solo al suo senso sociale o all’etica dell’accoglienza. Ogni azione della nostra vita ha connotazioni antropologiche definite; ci sono senz’altro dei comuni fatti quotidiani che noi diamo per scontati e, che in ogni cerchio concentrico culturale, hanno una valenza ben definita e presuppongono diversi comportamenti o decisioni mediche. Non è detto che esista un vero e proprio piano di clivaggio tra ciò che è tipico della cultura in cui si è cresciuti, si vive e si lavora e ciò che è radialmente sempre più eccentrico. La tabella 3, per esempio, riassume alcuni aspetti di quotidianità e li correla ad alcuni esempi di possibili inferenze decisionali in ambito medico. Come tale appare che la competenza culturale non è uno strumento che serve solo a relazionarsi con chi è molto diverso da noi, ma anche con chi ci appare più vicino, ma che in realtà appartiene a sottosistemi che si distinguono in modo significativo senza essere francamente asociali o distruttivi.

Globalizzazione: implicazioni e pregiudizi


Esiste una diffusa opinione che un ipotetico evento di “non cura” o di “rifiuto terapeutico” a favore di altre pratiche sia un fenomeno legato ad “ignoranza” e quindi in via di estinzione, dal momento che la globalizzazione è percepita apparentemente come “informazione collettiva automatica” (non si sa se come effetto positivo o collaterale).
L’uomo dell’era globalizzata, e forse anche i medici di oggi, in fondo sono inclini a pensare che questi fenomeni, relativamente comuni, siano legati a superstizione e quindi appartenenti a un mondo che presto non avrà più ragione d’essere.
Questo è un tipico errore da eccesso di positivismo, nella consapevolezza e cieca fiducia che il “progresso scientifico è buono” come tale, e come dogma, porti a miglioramento automatico delle conoscenze nel senso indicato dalla cultura dominante e questo riduca l’effetto distorsivo della “superstizione” interpretata in modo aneddotico e non certamente antropologico.
La diversità culturale si genera in continuazione e talvolta porta alla formazione di veri e propri gruppi che si differenziano e si differenzieranno dalla cultura dominante. Tale fenomeno non sempre è imputabile soltanto all’origine etnica, ma anche e soprattutto a credenze e a scale diverse di valori, nei quali la lingua (lingue vere e proprie ma anche slang e gerghi) e la religione sono e saranno solo alcune delle caratteristiche che dovranno essere considerate.

Un test di autovalutazione


Il medico di famiglia, quindi, ha un dovere culturale immediato e stemperato nella totalità della sua vita professionale, legato alla sua specifica competenza antropologica. A tal fine potrebbe sicuramente rilevarsi utile l’utilizzo di uno strumento messo a punto da Tawara Goode della Georgetown University (opportunamente modificato) che è una sorta di autovalutazione sulle nostre attitudini alla diversità culturale (vedi pagina precedente: “Test di autoverifica del proprio atteggiamento sulle competenze culturali”).



Bibliografia

• Caritas Italia, http://www.caritasroma.it/ Dossier statistico immigrazione 2005 - XV Rapporto
• Cohen E, Goode TD. Policy Brief 1: Rationale for cultural competence in primary health care. 1999.
• Cross TL, Bazron BJ, Dennis KW, Isaacs MR. Towards a culturally competent system of care: Vol. I. Washington, DC: National Technical Assistance Center for Children's Mental Health, Georgetown University Child Development Center; 1989.
• Goode TD. Promoting cultural competence and cultural diversity in early intervention and early childhood setting. 1989 (revised 2002).
• Helman C. Culture, health, illness. Arnold Publisher, London, 2001.
• Istat www.istat.it
• National Center for Cultural Competence, Georgetown University Center for Child and Human Development. Web:http://gucchd.georgetown.edu/nccc/documents/Policy_Brief_1_2003.pdf.
• Sutton M. Cultural competence. Fam Pract Manag 2000, 7(9); 58-62.