M.D. numero 32, 9 novembre 2005

Diario ambulatoriale
Il lavoro in team in medicina di famiglia - Cronaca di una settimana
di Giuseppe Maso, Medico di famiglia - Venezia, Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine
Alessandra Semenzato, Infermiera di famiglia - Venezia Docente Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine

Lunedì
L'epopea di Gilgamesh ci racconta la storia di un eroe, re di Uruk, città mesopotamica, bagnata dalle acque dell’Eufrate. Conosciamo questa storia perché ci è stata tramandata, scritta su tavolette di argilla, in diverse lingue e diverse versioni (sumerica, ittita, hurrita, antico-babilonese, accadica e assira). Duemila anni prima di Omero viene narrata la vita di un uomo e ne vengono descritti i valori, i costumi, i desideri e le paure. Si tratta del più antico racconto di cui disponiamo, è il primo personaggio, la prima voce di singolo che ci parla; il suo valore è quindi enorme e il suo contenuto è di un’importanza inestimabile per la conoscenza della storia dell’umanità (fa luce su quel lungo periodo che separa Abramo da Noè, compreso tutto in due capitoli del Libro della Genesi). Si racconta la storia del Diluvio universale, sono descritti la cosmologia degli dèi e il mondo degli inferi. L’epopea è un miscuglio di avventura, di morale e di tragedia. Una storia del terzo millennio a.C. attualissima, che si trascina lungo un filo conduttore, un affanno continuo, una preoccupazione tutta umana nei confronti della morte. “Dovrò forse dormire e lasciare che la terra copra per sempre il mio capo?... Ho paura della morte... Come posso riposare quando anch’io morirò e verro disteso per terra?”.
Tutta la storia è una battaglia contro la morte; tutta la storia è un affannarsi per recuperare la gioventù.
È lo stesso affannarsi, sono le stesse paure e le stesse preoccupazioni di oggi, quelle che vediamo nel nostro ambulatorio. Abbiamo la riconferma che queste paure sono il motivo dell’esistenza della nostra professione, esse sono nate con l’uomo; morire non sembra assolutamente essere naturale. Gilgamesh cercava l’immortalità con l’aiuto degli dèi; i nostri pazienti, inconsciamente, la cercano con il nostro aiuto.
Questo è il motivo della “sacralità” del nostro ruolo e la ragione per cui dobbiamo ascoltare attentamente ciò che ci viene sempre detto (anche se non sembra): “Ho paura di morire”.

Martedì

Alessandra ha fatto centinaia di lavaggi auricolari, ma oggi non riusciva ad asportare dal condotto uditivo di un ragazzo un tappo particolarmente resistente. Ci siamo riusciti con difficoltà, utilizzando una pinza. Non riuscivamo a capire di cosa fosse fatto, perché di cerume certo non era. Quando lo abbiamo analizzato e abbiamo cominciato a maneggiarlo abbiamo visto, con stupore, che stavamo srotolando e distendendo le ali di una farfalla. Era un grosso farfallone, probabilmente entrato nella fessura del casco mentre il nostro paziente correva in moto.

Mercoledì

C’è gente che viene in ambulatorio in tuta da ginnastica, alcuni arrivano direttamente dal lavoro sporchi di nafta o di malta. In estate ci siamo abituati a vedere gente in ciabatte di plastica, canottiera e bermuda. Non si pongono alcun problema, anzi. Si potrebbe pensare che sia la confidenza instaurata nel corso degli anni alla base di questa “informalità”, ma non è così. I pazienti che seguiamo da tanto e che ci conoscono bene non usano questo “stile”, e gli stessi che vengono da noi con un abbigliamento di questo tipo mai si sognerebbero di andare a farsi visitare così conciati in un ambulatorio specialistico o in ospedale.
Non solo, questi ovviamente non accetterebbero mai un medico in visita a casa loro, in canottiera.
Non è solo un segnale della decadenza dei tempi: purtroppo è un segnale della decadenza della nostra professione e delle considerazione di cui gode.

Giovedì

“Buongiorno dottore, è la prima volta che veniamo da lei, siamo venuti a conoscerla. Oggi sono qui con mio marito, ma vorrei cominciare col dirle cosa mi è successo in questi giorni”. È una bella signora pugliese, elegante nei modi e di quella nobiltà e fierezza che non si è più abituati a vedere dalle nostre parti. “Sono stata ricoverata per alcuni giorni in un reparto di medicina generale per delle coliche addominali insopportabili accompagnate da vomito, poi sono stata trasferita in ginecologia per una sospetta endometriosi; mi hanno dimessa con una diagnosi generica di coliche addominali che però continuo ad avere, tanto che sono già stata per ben due volte in pronto soccorso le notti scorse. Mi dica dottore cosa può essere e cosa devo fare?”
La mia mente cominciava già a pensare al suo caso e lei continuava: “Mio marito è qui con me perché da qualche mese ha difficoltà di erezione; molto probabilmente è stressato, lavora tanto, ci siamo trasferiti da poco, io non sto molto bene e abbiamo anche un bambino che ha problemi. Nostro figlio non è maturo quanto dovrebbe per la sua età, è un bambino iperattivo e richiede attenzioni particolari, anche questa è una fonte di stress e preoccupazione”. “E il pediatra cosa dice?” “Dottore, l’abbiamo iscritto da lei, vorremmo che fosse lei a seguircelo”.
In tre minuti mi è stata posta una mole di problemi (diagnostici, terapeutici, sociologici e psicologici) veramente non indifferente. Sono problemi affrontabili soltanto in maniera unitaria, considerandoli come componenti singoli di un sistema complesso.
La famiglia come oggetto globale del nostro intervento. È una grossa responsabilità; si può affrontare solo con molta dedizione, umiltà, professionalità e determinazione.
Questa è la sfida che rende bella la nostra professione. “Bene signora, si stenda sul lettino, cominciamo con lei”.

Venerdì

“Le ho portato la lettera di dimissione. Sono stato ricoverato di nuovo in cardiologia per una recidiva di fibrillazione atriale, anche questa volta sono ritornato a ritmo con dei farmaci, ma finalmente ho capito la causa di tutto. Quando ero ricoverato i cardiologi mi hanno ripetuto più volte che devo smettere di fumare e mia sorella che mi veniva a trovare continuava a dirmi che se continuavo a fumare sarebbe venuta a trovarmi al cimitero. Ho capito che esiste contro di me una congiura segreta di ‘antifumatori’ che fanno in modo che mi venga l’aritmia affinché debba essere ricoverato, così che i cardiologi possano farmi paura e indurmi a smettere di fumare. Molto probabilmente in mensa, al lavoro, mi mettono nel cibo qualcosa che mi provoca l’aritmia”.
Rino mi guardava con lo sguardo di chi non si fa ingannare e in qualche modo voleva dirmi: “Attento dottore, so che anche tu fai parte del complotto”.
Mi ha dato la lettera di dimissione, si è alzato e se ne è andato. È uscito dallo studio e si è immerso nel mondo dove vive, lavora, vota, guida l’automobile, alleva due figli e discute di calcio.

Sabato

Ci sono giorni che si aprono con una sensazione, un evento, un’emozione così particolari, che ci accompagnano e condizionano fino a sera.
Oggi, mentre ero ancora per strada in auto, ricevo una telefonata di Paola, 43enne che da poco più di un mese ha subito un intervento di colectomia totale perché affetta da una grave forma di morbo di Crohn: “Alessandra tra quanto arrivi in ambulatorio? Mi hanno telefonato poco fa dall'ospedale, dicendomi che è arrivato l'esito della biopsia. Ho un melanoma. Mi hanno detto che è un tumore maligno, e io ho bisogno di voi”.
Paola è sconvolta, l'esame istologico si riferisce a una biopsia di un nodulo del cuoio capelluto eseguita durante la degenza per la colectomia. La piccola formazione che aveva in testa era lì da almeno un anno, anno molto difficile per Paola, non solo a causa del morbo Crohn e della sofferta accettazione di sottoporsi a quella “mutilazione”, ma anche per le notevoli difficoltà familiari. Infatti i rapporti col marito sono pessimi, così come sono complicati e tesi quelli con la figlia ribelle adolescente.
Quel nodulino l'aveva considerato solo dal punto di vista estetico, e in ospedale aveva chiesto che le venisse asportato pensando quasi d'essere inopportuna. Il dolore che aveva sentito per la biopsia è stato più intenso di quello avuto per la colectomia.
“Proprio non ci pensavo più. Pensavo che Dio mi aveva già dato il Crohn, che fosse sufficiente e che questo fosse il mio fardello; mai avrei immaginato di dover affrontare anche un tumore. Dove la trovo la forza, adesso?” A questa domanda dobbiamo rispondere.