M.D. numero 33, 9 novembre 2005

Dialoghi clinici
La gestione ambulatoriale e domiciliare delle polmoniti
Medicina Generale a cura di: Gian Paolo Andreoletti, Medico di medicina generale, Vertova (BG)
Specialistica a cura di: Sergio Harari, Direttore Maria Rosa Mirenda, Dirigente medico UO di Pneumologia, Ospedale S. Giuseppe Fatebenefratelli, Milano

La diversità tra medicina generale e specialistica può essere fattore di arricchimento della pratica medica, se a prevalere è il momento dialogico, all’insegna della complementarietà, focalizzata sulle esigenze concrete che la gestione di una problematica fa emergere nella quotidianità.
M.D. propone, di volta in volta, un confronto tra le due discipline, fatto di domande precise e di risposte condivise.

La sempre minore disponibilità, da parte delle strutture ospedaliere, a ricoverare pazienti con malattie anche impegnative ha reso negli ultimi anni notevolmente più gravoso e carico di responsabilità il lavoro del medico di medicina generale. Quest’ultimo si trova quindi spesso a dover fronteggiare da solo patologie talora gravi e addirittura potenzialmente (specie nelle persone anziane) letali, quali le polmoniti. Deriva da ciò la necessità di una approfondita conoscenza delle principali nozioni cliniche e terapeutiche in ambito pneumologico, al fine di poter gestire al meglio il paziente con infezioni acute delle vie respiratorie inferiori

Su quali criteri può essere posta la diagnosi di polmonite?
La diagnosi di polmonite è clinica, laboratoristica, microbiologica e radiologica. Di fronte a un paziente con sintomi suggestivi quali febbre con brivido, sudorazione, tosse, comparsa di espettorato o modificazioni delle caratteristiche dell’espettorato in pazienti broncopneumopatici cronici, dispnea o dolore toracico, deve essere eseguita una radiografia del torace in proiezione antero-posteriore e latero-laterale mirata a escludere o confermare il sospetto diagnostico di polmonite.
Su questo c’è un generale consenso in considerazione della scarsa predittività della storia clinica e dell’esame obiettivo. Accanto ai sintomi specifici sono da considerare una serie di sintomi aspecifici quali stato confusionale, cefalea, sintomi addominali, scadimento delle condizioni generali, anoressia, astenia.
La radiografia del torace rappresenta il gold standard per la diagnosi di polmonite, ma è anche vero che alcuni pazienti, pur presentando i segni clinici e semeiologici di una polmonite, hanno la radiografia del torace apparentemente negativa, soprattutto nelle fasi precoci della malattia infettiva. In alcuni di questi casi potrebbe essere utile l’esecuzione di una TAC del torace. All’auscultazione del torace la presenza di rantoli o altri rumori respiratori non rappresenta un dato sensibile o specifico, soprattutto in presenza di broncopneumopatia cronica.
Tra gli esami ematochimici sono utili gli indici di flogosi (PCR, VES, emocromo), nel caso di sospetto di polmonite atipica gli esami utili sono transaminasi, fosfatasi alcalina, funzionalità renale ed elettroliti, oltre alla sierologia specifica. Utile è la ricerca dell’antigene urinario per pneumococco che si positivizza precocemente e la cui esecuzione è immediata.
L’esame microbiologico non è fondamentale o altamente raccomandabile come la radiografia del torace per diverse ragioni: difficoltà a produrre un campione adeguato, contaminazione orofaringea, scarsa sensibilità. È consigliabile solo se si sospetta la presenza di ceppi multiresistenti e/o di patogeni non usuali non sensibili a una terapia antibiotica empirica.

Nella terapia delle polmoniti batteriche va privilegiata la terapia antibiotica orale o quella iniettiva?
Alcuni antibiotici, come i chinolonici somministrati per os, raggiungono livelli sierici paragonabili a quelli ottenibili con la somministrazione parenterale, sono farmaci pertanto che hanno uguale efficacia se somministrati per os o ev e si prestano bene per una terapia sequenziale, mentre ciò non si verifica per altre molecole come le beta-lattamine e la claritromicina. In quest’ultimo caso appare più prudente, se si inizia con la via parenterale, prolungare la terapia prima di passare alla somministrazione orale che si accompagna a una riduzione dei livelli sierici del farmaco. Non vi sono indicazioni univoche sulla durata della terapia parenterale: in genere nei pazienti non batteriemici la switch therapy può essere condotta a 48-72 ore dall’inizio del trattamento in caso di risposta clinica soddisfacente. Anche nelle polmoniti da pneumococco appare utile prolungare la terapia parenterale per prevenire l’endocardite batterica, che complica fino al 10% dei casi. La terapia parenterale è inoltre da preferire in caso di disturbi gastroenterici che ne riducono l’assorbimento per os o in caso di condizioni cliniche del paziente così compromesse da non potere usufruire della via orale.

Quali antibiotici è preferibile utilizzare nelle polmoniti batteriche?
La terapia antibiotica deve essere una terapia empirica ottimizzata, in quanto la diagnosi eziologica è possibile in meno della metà dei casi e spesso il germe responsabile viene identificato mediante coltura o sierologia molti giorni dopo la diagnosi clinico-radiologica.
A tale scopo è necessario conoscere e considerare l’epidemiologia microbiologica, le resistenze batteriche in ambito locale, la severità della malattia, la presenza di fattori prognostici negativi, l’età del paziente, le comorbidità, la disponibilità di farmaci antibatterici che possono permettere una terapia efficace con buona compliance. Per rendere più omogenei i criteri di scelta e ottimizzare le scelte terapeutiche le diverse società scientifiche hanno formulato raccomandazioni per il trattamento delle polmoniti acquisite in comunità (CAP).
In Italia la prevalenza di ceppi di S. pneumoniae con sensibilità intermedia alla penicillina è ancora bassa (<15%) contrariamente a quanto accade in Francia, Spagna, USA e Canada dove fino al 40% dei ceppi isolati sono resistenti. Fino al 30-40% dei ceppi sono resistenti ai macrolidi. Pertanto nel nostro Paese, in caso di CAP a domicilio determinata da pneumococco, la probabilità di incontrare resistenza del patogeno è minore se si utilizza amoxicillina, una cefalosporina orale di II o III generazione o un fluorochinolone di III o IV generazione a elevata attività antipneumococcica rispetto all’impiego di macrolidi, cotrimossazolo o tetracicline. La scelta di una cefalosporina di III generazione non antipseudomonas (ceftriaxone) per via iniettiva, purché dosata adeguatamente, può costituire un’alternativa in pazienti con disturbi gastroenterici concomitanti, che potrebbero determinare scarso assorbimento del farmaco per via orale.
L’uso dei fluorochinoloni, molto efficaci sul pneumococco, è da riservare ai pazienti in gravi condizioni cliniche o allergici ai beta-lattamici per evitarne un impiego troppo diffuso e l’insorgenza di resistenze.
Il 40% dei ceppi di Haemophilus influenzae è resistente ai beta-lattamici per produzione di beta-lattamasi. È necessario quindi somministrare farmaci resistenti alle beta-lattamasi per l’aggiunta di inibitori di questi enzimi (clavulanato, tazobactam) o cefalosporine orali di II e III generazione o azitromicina.
Mycoplasma pneumoniae, Chlamydia pneumoniae e Legionella pneumophila sono patogeni intracellulari obbligati. I farmaci attivi su questi patogeni sono macrolidi, tetracicline e fluorochinoloni, che sono in grado di raggiungere elevate concentrazioni intracellulari. Tra i fluorochinoloni è consigliabile utilizzare levofloxacina o moxifloxacina, molto efficaci anche sul pneumococco. I microrganismi Gram-negativi che possono determinare più frequentemente CAP sono rappresentati da Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa ed Enterobacter spp. Le CAP determinate da questi patogeni possono essere più gravi clinicamente (classe IV o V di Fine) rispetto a quelle da
S. pneumoniae o Mycoplasma pneumoniae e spesso richiedono il ricovero ospedaliero o in terapia intensiva, dove gli schemi terapeutici sono basati sulla somministrazione parenterale di cefalosporine di III o IV generazione antipseudomonas o di carbapenemici o ureidopenicilline associate a fluorochinoloni o aminoglicosidi.
In sintesi, nei pazienti a domicilio senza fattori di rischio l’antibiotico di prima scelta è rappresentato dall’amoxicillina, eventualmente associata alla claritromicina se si sospetta un’eziologia da atipici. Nei pazienti con fattori di rischio affetti da BPCO è da preferirsi una amoxicillina protetta sempre in eventuale associazione con il macrolide o in alternativa un fluorochinolonico, che è attivo sia sul pneumococco che sugli atipici.

Come si diagnosticano e si curano le polmoniti atipiche?
Si definiscono polmoniti atipiche quelle sostenute da Legionella pneumophila, Chlamydia pneumoniae e Mycoplasma pneumoniae. La ricerca dell’antigene urinario della Legionella ha un’elevata utilità diagnostica, in quanto si positivizza precocemente nella maggior parte dei pazienti affetti da polmonite da Legionella ed è di veloce esecuzione. All’esordio della malattia i test sierologici non sono utili per la diagnosi: infatti è necessario avere a disposizione il dosaggio anticorpale su due campioni di sangue, uno raccolto durante la fase acuta e uno in fase di convalescenza per verificare un aumento di almeno quattro volte di IgG, IgA o IgM tra i due campioni. In più della metà dei casi di polmonite da Mycoplasma pneumoniae si dimostra la comparsa di emoagglutinine, cioè di IgM fissanti il complemento e dirette contro l’antigene I eritrocitario. Questa reazione non può essere comunque considerata diagnostica, in quanto le crioagglutinine sono aspecifiche e possono associarsi ad altre patologie come le malattie neoplastiche. Gli antibiotici di prima scelta nella cura delle polmoniti da atipici sono i macrolidi (eritromicina, claritromicina, azitromicina), in seconda istanza sono attivi i fluorochinoloni e le tetracicline.

Per quanto tempo va prolungata la terapia antibiotica empirica nelle polmoniti?

In genere una polmonite da pneumococco o da altri batteri dovrebbe essere trattata per un periodo di 7-10 giorni, in pazienti con Mycoplasma pneumoniae e Chlamydia pneumoniae da 10 a 14 giorni, in pazienti con Legionella pneumophila non meno di 14 giorni, fino a 21 giorni in soggetti in trattamento cronico con corticosteroidi. Quindi per il paziente trattato a domicilio, la durata della terapia è basata sul presunto patogeno in rapporto a criteri epidemiologici e di rischio del paziente, sulla risposta al trattamento, sulle malattie concomitanti presenti e sulle eventuali complicanze. In un paziente con polmonite da pneumococco la regressione dell’iperpiressia si ottiene entro 48-72 ore, mentre le forme da Mycoplasma pneumoniae e Chlamydia pneumoniae hanno un andamento febbrile a più lenta defervescenza e quindi dovrebbero essere trattate fino a due settimane, anche se in questi casi potrebbe essere usato un macrolide con lunga emivita come l’azitromicina. Il persistere immutato del quadro clinico o addirittura il suo peggioramento dopo 72 ore di terapia empirica devono indurre il medico di famiglia a ricoverare il paziente.

Quando effettuare la radiografia del torace e gli esami ematochimici di controllo?

Secondo alcuni autori la radiografia di controllo dovrebbe essere eseguita dopo la fine del trattamento, tra il 10° e il 14° giorno dall’inizio della malattia, ricordando però che la negativizzazione radiologica del processo polmonare può essere più tardiva della risoluzione clinica. Gli esami ematochimici dovrebbero essere controllati dopo almeno 96 ore, per verificare la riduzione degli indici di flogosi e della leucocitosi.

Quando le polmoniti possono essere contagiose e richiedono quindi l’isolamento del paziente?
Il paziente deve essere isolato se affetto da polmonite tubercolare con esame batterioscopico diretto su espettorato positivo per bacilli alcol-acido resistenti. In genere le polmoniti batteriche acquisite in comunità non necessitano di isolamento del paziente, in quanto non rappresenta una fonte di contagio per soggetti immunocompetenti.

I cortisonici hanno un ruolo nella terapia delle polmoniti?

L’utilità del cortisone è stata dimostrata nelle severe polmoniti acquisite in comunità che necessitano di ricovero in unità di terapia intensiva: in particolare nei soggetti trattati anche con cortisone si osserva una risoluzione più precoce dell’infezione, una minore percentuale di complicanze, una riduzione della mortalità, una riduzione dei tempi di ospedalizzazione, un maggiore miglioramento dell’insufficienza respiratoria.
I pazienti affetti da AIDS con severa polmonite da Pneumocistis carinii trattati con corticosteroidi ad alte dosi hanno una evoluzione clinica migliore: riduzione della risposta infiammatoria alveolitica, maggiore miglioramento clinico, riduzione della mortalitàno, senza aumentato rischio di altre infezioni opportunistiche.
Non vi è indicazione all’utilizzo del cortisone nelle polmoniti acquisite in comunità che non richiedono il ricovero ospedaliero.

Quando un paziente con polmonite dovrebbe essere obbligatoriamente ricoverato?

Un tentativo di classificare la gravità del paziente affetto da CAP e di valutare l’indicazione al ricovero ospedaliero è stato effettuato negli Stati Uniti nello studio PORT (Pneumonia Outcome Research Team). In questo studio sono stati esaminati circa 14.000 pazienti ricoverati per CAP nel periodo 1989-1990 ed è stato indagato se dati clinici, obiettivi e di laboratorio correlassero con un aumento del rischio di mortalità. Lo studio è stato poi validato su 39.000 pazienti nel periodo 1991-1994. È stata così formulata una classificazione in cinque classi successive. Lo studio PORT presenta caratteristiche che apparentemente lo rendono adatto all’utilizzo in medicina generale, in quanto gli elementi classificativi sono facilmente desumibili dall’anamanesi e dall’esame obiettivo. Rilevato il dato e correlato quest’ultimo al punteggio relativo, è possibile l’attribuzione del paziente alla classe di rischio: coloro che si trovano nelle classi I e II possono essere trattati a domicilio, come quelli della classe III, anche se in determinate circostanze è ammesso un breve ricovero ospedaliero, mentre quelli in classe IV e V necessitano di ricovero ospedaliero (quelli in classe V in un reparto di terapia intensiva, essendo gravati di una mortalità pari a circa il 30%). Tale classificazione non è stata validata in Italia. Il limite è rappresentato dal riferimento a dati di laboratorio che non sempre e non in tutte le zone d’Italia possono essere di facile acquisizione. Inoltre tali informazioni dovrebbero essere di pronta comunicazione al medico, poiché da essa dipende la decisione di ricoverare o meno il paziente.
In linea generale il medico di medicina generale dovrebbe ricoverare il paziente affetto da CAP in presenza di più fattori di rischio: età >65 anni, comorbidità, FR >30 atti/min, pressione sistolica £90 mmHg, pressione diastolica £60 mmHg, leucocitosi (>30000) o leucopenia (<4000), evidenza di interessamento extra polmonare, alterato stato mentale, presenza di insufficienza respiratoria (SaO2 <90%), tachicardia (>125 bpm), iperpiressia (>40°C), reperto radiologico di polmonite bilaterale o plurilobare o di interessamento pleurico. La mancata risposta alla terapia antibiotica empirica entro 72 ore o il netto peggioramento clinico devono condurre al ricovero ospedaliero. In alcuni casi è necessario anche considerare la qualità dell’assistenza a domicilio.

Qual è il ruolo del vaccino antipneumococcico nella prevenzione delle polmoniti?

Il pneumococco è il più comune patogeno responsabile di polmoniti acquisite in comunità e una delle principali cause di polmonite batteriemica nei soggetti anziani e nei pazienti adulti affetti da BPCO. Queste forme si associano ancora oggi a elevata mortalità (dal 15% al 40%) soprattutto nei soggetti ad alto rischio quali gli anziani specie se istituzionalizzati, i portatori di malattie croniche debilitanti, gli immunodepressi e gli splenectomizzati. A ciò si aggiunge l’emergenza di ceppi di pneumococco altamente resistenti alla penicillina, limitato in Italia al 12-15% dei ceppi, più esteso invece in altri Paesi europei come Spagna e Ungheria (40%).
È disponibile in Italia un vaccino polivalente preparato con i 23 sierotipi che si sono dimostrati responsabili dell’85-90% dei casi di infezione invasiva. Attualmente il suo impiego può essere consigliato nei soggetti che vanno incontro a una maggiore incidenza e severità delle infezioni pneumococciche rispetto alla popolazione generale, quali soggetti immunocompetenti con età >65 anni, soggetti di età <65 anni con malattie croniche cardiovascolari (scompenso cardiaco congestizio, cardiomiopatia ischemica), malattie croniche polmonari (BPCO), diabete mellito, alcolismo, malattie epatiche croniche (cirrosi), asplenia funzionale o anatomica, terapia steroidea cronica.
Il vaccino è contenuto in siringhe monodose e va iniettato per via intramuscolare o sottocutanea.
Il vaccino antipneumococcico ha mostrato di essere sicuro ed efficace. Studi caso controllo hanno dimostrato che l’efficacia del vaccino nel prevenire l’infezione pneumococcica invasiva è compresa tra il 65% e l’84%. Nei soggetti anziani con più di 65 anni è in grado di ridurre la mortalità del 34% e le ospedalizazioni per polmonite del 43%. La durata della protezione anticorpale è di cinque anni. Nei soggetti anziani broncopneumopatici cronici la vaccinazione antipneumococcica e antinfluenzale hanno azione sinergica nel ridurre mortalità e ospedalizzazione per polmonite. Tra gli effetti collaterali sono da segnalare la comparsa di eritema e dolore locale, più raramente una reazione febbrile, che in genere non supera le 24 ore.