M.D. numero 29, 12 ottobre 2005

Rassegna
Violenza domestica: un problema di salute pubblica
di Giovanni Filocamo - Medico di medicina generale, Milano - Responsabile Dipartimento Neuroscienze AIMEF

Per poter dare un’adeguata risposta nella gestione di tale fenomeno è necessario il contributo della Medicina di Famiglia, chiamata dal suo ruolo e dalle sue competenze a diffondere una cultura su queste tematiche

La definizione dellšONU e i dati dellšOMS
Nel 1993 l’ONU ha definito la violenza contro le donne come “ogni atto che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale, psicologico o ingeneri sofferenza in una donna, compresa la minaccia di tali atti, la coercizione e l’arbitraria privazione della libertà,
tanto nella vita pubblica che in quella privata”. Nel 1996 l’OMS ha deciso di adottare definitivamente questa definizione.
Secondo i dati diffusi dall’OMS una donna su tre subisce percosse o abusi sessuali nel corso della propria vita e una su quattro è vittima di una forma di violenza durante la gravidanza. La violenza interpersonale risulta essere la decima causa di morte per le donne di età compresa tra i 14 e i 44 anni (dati del 1998).

Negli ultimi anni il problema della violenza domestica, perpetrata sulle donne e sui minori, è emersa in tutta la sua drammaticità tanto da essere inquadrata come problema di salute pubblica da parte di importanti organismi internazionali.
Secondo l’OMS la violenza commessa in ambito familiare da parte di un partner o di un ex partner rappresenta l’evento più frequente, che supera addirittura il 90% dei casi in corso di gravidanza.
In Italia esistono pochi dati sulla violenza in generale e praticamente quasi nulla su violenza e gravidanza.
La principale fonte ufficiale di informazioni è rappresentata dall’indagine multiscopo sulla “Sicurezza dei cittadini”, condotta dall’Istat per la prima volta nel 1998 e aggiornata nel 2002 (il documento finale è stato pubblicato nel 2004), i cui dati ci mostrano su 22.759 donne intervistate telefonicamente, un’incidenza del 2.9% di violenza tentata o consumata. Inoltre, l’autore di tale violenza risulta essere nel 93.5% dei casi un conoscente.
Per quanto concerne i minori è ancora più difficile riuscire ad avere la dimensione del fenomeno degli abusi. Dai dati emergenti dalle fonti giudiziarie, relativi cioè al numero delle denunce, risulta che nel 2000 sono stati denunciati 698 casi di abusi in minori di 17 anni, mentre si stima, da dati proiettivi, un numero di almeno 300 mila casi l’anno.
Il fenomeno della violenza domestica in realtà non emerge nella sua interezza. La violenza subita soprattutto tra “le pareti di casa” continua a rappresentare spesso un tabù per la società moderna che si riflette sull’atteggiamento di silenzio e spesso di rimozione attuate dalle vittime.
Meno del 15% delle donne che ha subito violenza o abuso richiede assistenza sanitaria professionale. Molti studi indicano che le donne discuterebbero dei fenomeni d’abuso con un operatore sanitario, se lo chiedesse loro direttamente. A ciò fa da contraltare il fatto che tra il numero di donne che cercano cure mediche per cause traumatiche, gli operatori sanitari diagnosticano correttamente solo un caso di violenza ogni 35 pazienti.
Mancano adeguati strumenti e conoscenze da parte degli operatori sanitari, medici compresi, per fare emergere il sommerso e decodificare le richieste d’aiuto non francamente palesate.

Un problema di formazione e di ruolo


Molte sono le interferenze sociali e culturali che anche nel nostro Paese ostacolano la messa a fuoco di questo fenomeno, che per essere gestito comunque ha bisogno di un approccio multidisciplinare.
Il comportamento violento origina da molte fonti e va ricercato valutando il contesto biopsicosociale. Gli aspetti biologici possono contribuire a spiegare parzialmente la genesi della violenza che può originare sia da una malattia mentale sia dal contesto familiare.
La violenza in famiglia attraversa tutte le linee socio economiche e può colpire chiunque indipendentemente da età od orientamento culturale.
Ma nonostante le barriere frapposte alla diagnosi e al trattamento di vittime della violenza domestica, i medici di famiglia hanno una posizione ideale per affrontare questa sfida. I Mmg, proprio per le abilità intrinseche alla loro disciplina sono i candidati più idonei a identificare i pazienti a rischio: sono addestrati a valutare la famiglia nel suo complesso e l’individuo nel suo ambiente sociale.
Grazie alla continuità assistenziale, tipica della medicina di famiglia, si può guadagnare col tempo la fiducia della paziente e ci si può proporre come ascoltatori comprensivi. I Mmg possono offrire un intervento per interrompere il ciclo della violenza, inserendo nella propria routine domande specifiche che hanno la finalità di identificare l’abuso. Possono aiutare, informando i pazienti e consigliando metodiche per la corretta gestione dello stress, possono preoccuparsi di bambini o genitori anziani. Possono parlare con donne e uomini delle loro esperienze di abusi precedenti e possono essere una fonte di raccomandazione importante per altre risorse nella comunità.

Disturbo post traumatico da stress

Il disturbo post traumatico da stress insorge dopo un evento traumatico importante.
I sintomi comprendono pensieri sconvolgenti e incubi incentrati sull’evento traumatico, comportamenti d’evitamento, attenuazione della reattività generale, aumento dell’irritabilità e ipervigilanza per almeno un mese Il disturbo da stress acuto si verifica entro il primo mese dopo un evento traumatico maggiore e richiede la presenza di sintomi per almeno 2 giorni. È simile al disturbo post traumatico da stress, ma sono richiesti più sintomi dissociativi
per porre la diagnosi. I fattori di rischio includono un trauma grave (come uno stupro), una storia di disturbi psichiatrici, angoscia acuta e depressione dopo il trauma, mancanza di sostegno sociale e fattori personologici (come personalità nevrotica). L’obiettivo degli interventi deve essere quello di ridurre l’angoscia iniziale dopo un evento traumatico; prevenire il disturbo da stress post traumatico e altri disturbi psichiatrici; ridurre i livelli d’angoscia a lungo termine; migliorare il funzionamento sociale e la qualità di vita.

Cenni di trattamento

Interventi per i quali è stata definito un ruolo specifico

Fluoxetina
Due studi randomizzati hanno evidenziato che la fluoxetina può ridurre i sintomi a 3 mesi rispetto a placebo.
Paroxetina
Una revisione sistematica e studi randomizzati successivi hanno messo in evidenza che la paroxetina riduce i sintomi a 3 mesi rispetto a placebo.
Sertralina
Una revisione sistematica e studi randomizzati successivi hanno segnalato che la sertralina riduce significativamente i sintomi a 3-7 mesi rispetto a placebo.
Terapia cognitivo-comportamentale
Studi randomizzati hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale migliora significativamente i sintomi di disturbo post traumatico da stress, l’ansia e la depressione rispetto a nessun trattamento o a counselling di supporto.
Trattamento ospedaliero
Non si sono trovate prove sufficienti sugli effetti del trattamento ospedaliero.

Clinical Evidence 2005

Non è un caso che nelle Linee guida del ministero della Salute sulla violenza domestica si afferma che: “Il medico di famiglia deve essere coinvolto nella gestione del paziente, ricercando ed identificando l’evento acuto, affrontabile con l’aiuto dei servizi di secondo livello”. Ma è indispensabile l’intervento del medico di famiglia anche nella fase successiva, quando la paziente tende a cronicizzare una serie di comportamenti e disturbi che richiedono un corretto follow up. Questi interventi hanno la finalità di arginare, dove possibile, il peggioramento del quadro clinico, di evitare la recidiva o la ricaduta ed eventualmente reindirizzare la paziente al centro di riferimento per una rivalutazione. In questi casi, per un corretto inquadramento clinico, è opportuno che il Mmg faccia riferimento ai dati della Clinical Evidence su violenza domestica e disturbo post traumatico da stress.
Non vanno comunque sottovalutati gli ostacoli che impediscono al medico di famiglia di offrire un adeguato approccio a questi pazienti.
Primi fra tutti i pregiudizi. Sono molti infatti i luoghi comuni sulla violenza domestica che devono essere combattuti: l’equivoco che le vittime sono povere donne dei sobborghi della città; la credenza che la violenza è rara o non accade in famiglie che sembrano normali; il sentimento che la violenza domestica è una questione privata; la nozione che le vittime sono in qualche modo responsabili dell’abuso.

La paura di chi subisce violenza


La principale barriera all’identificazione del soggetto che ha subito violenza è la paura da parte degli stessi di ritorsioni del partner abusivo, accompagnata dalla scarsa fiducia di un adeguato coinvolgimento della polizia. Inoltre non bisogna sottovalutare il fatto che esiste un’intrinseca difficoltà nel riconoscere ciò che quelle stesse persone hanno scelto di nascondere, mimetizzando la violenza subita dietro una più rassicurante dichiarazione di lesione da incidente occasionale.

Le resistenze dei medici


I medici dal loro canto possono essere riluttanti per discutere la violenza domestica con pazienti per paura di essere coinvolti eccessivamente in problemi personali. Si può avere il timore di non essere sufficientemente preparati a trattare il problema. Il medico che non si preoccupa di proteggere il paziente dalla violenza domestica, può sottrarsi da dare il giusto conforto al soggetto. Ostacoli molto rilevanti sono la paura di offendere un paziente, avvertire un senso d’inadeguatezza o la paura della perdita di controllo, il tempo insufficiente. Un’altra barriera, forse più emendabile, è un addestramento insufficiente a lavorare con vittime di violenza, la scarsa conoscenza del medico delle metodologie da seguire per proteggere il paziente dall’abuso, ma ci può essere anche una mancanza di conoscenza sulle risorse della comunità disponibili o scarsa collaborazione per indirizzare le pazienti ai centri di riferimento.

Scheda per facilitare il riconoscimento della violenza sessuale
E' possibile proteggere dalla violenza anche semplicemente dedicando, nella propria pratica clinica, pochi minuti al suo riconoscimento.
E' sperabile che le donne che sono state ripetutamente vittime della violenza possano essere aiutate, infatti, la rivelazione della violenza può interromperne il ciclo. E' possibile inoltre:
• chiarire l’origine dei problemi che si presentano
• informare il paziente sul collegamento tra la violenza ed i suoi sintomi attuali
• migliorare la relazione di medico/paziente
• ridurre il rischio delle lesioni al paziente
• aiutare la vittima ad ammettere quello che le è accaduto ed aiutarla a non avere sensi di colpa o vergogna
• offrire raccomandazioni alla vittima per aiutarla dal punto di vista normativo, indirizzandola ai centri d’assistenza specialistica.

Quando è utile chiedere a pazienti informazioni sulla violenza?

Porre domande sulla violenza è sicuramente utile. Dati di letteratura suggeriscono che le pazienti che ritornano dopo non aver risposto alle domande sulla violenza hanno bisogno di essere aiutate.
Queste domande devono essere presentate durante le visite di routine. È importante cominciare spiegare sempre perché si stanno facendo queste domande e documentare chiaramente le risposte. Alcune donne hanno riferito che non si aspettavano che medici di famiglia potessero aiutarle nel risolvere questi loro problemi. Nelle donne con esiti d’abuso, la proposta d’informazioni, valutazione e d’appoggio, sono molto utili. Evidenziare il problema della violenza può aiutare le vittime ad uscire dallo stato d’auto svalutazione e di rifiuto che vivono.
Porre domande dirette sulla violenza passata e presente, essere diretti e comprensibili durante l’anamnesi è importante, non si deve usare una lingua formale, tecnica, o medica. Porgere domande del tipo:
• è mai stata toccata in un modo da disturbarla?
• è mai stata costretta od obbligata a prestazioni sessuali?
• lei ha il controllo sulle sue relazioni sessuali e sarà ascoltata se risponde “no” ad una richiesta di prestazione sessuale?
• è mai stata colpita da un partner?
• è spaventata o impaurita quando rientra a casa?
I medici devono rispondere alle domande della donna che riferisce una violenza in una maniera calma ma premurosa, senza giudicarla o promuovere delle critiche. è importante ricordare che è la paziente a decidere quelli che saranno i suoi prossimi passi. Il medico non può dirle cosa fare. La paziente va rinfrancata dicendole che:
• crede in ciò che riferisce
• non la si biasima per quello che è successo
• deve avere speranza e fiducia
• ci sono informazioni importanti da considerare
• non è sola e che ciò purtroppo è accaduto a molte donne
• queste rivelazioni non fanno cambiare la relazione con il medico
• il medico è disponibile ad aiutarla
• adesso ha bisogno di farle delle domande e che tenterà di aiutarla
• qualcuno le ha fatto capire che se fosse stata disponibile sessualmente avrebbe potuto avere in cambio un lavoro, ad esempio le hanno chiesto se era fidanzata, se era disponibile ad uscire la sera o ad andare a cena o a pranzo fuori insieme.



Esistono tuttavia degli strumenti che possono facilitare il riconoscimento da parte del medico di un soggetto che abbia subito violenza sessuale. Così come esistono già dei tentativi di creare un percorso formativo da parte di medici specialisti “vicini” alle donne. L’Associazzione dei Ginecologi Ospedalieri (AOGOI), per esempio, ha istituito un gruppo di lavoro su tali problematiche a livello nazionale, che ha visto il coinvolgimento di medici legali e pediatri, e sta mettendo a punto un percorso da proporre nelle strutture ospedaliere che vogliono attrezzarsi per affrontare tali problematiche. Ma per poter dare un’adeguata risposta agli effetti sulla salute (tabella 1) della violenza domestica, nonché ad una precoce individuazione dei soggetti a rischio di subirla o di esserne potenzialmente gli artefici, non può mancare, anzi è necessario e indispensabile il contributo della Medicina di Famiglia che è chiamata dal suo ruolo e dalle sue competenze a diffondere una cultura su queste tematiche tra chi tale disciplina esercita.

Ringraziamenti
Si ringrazia per la collaborazione
la Dr.ssa Alessandra Kustermann,
Responsabile Centro SVS,
Istituti Clinici di Perfezionamento,
Clinica Mangiagalli, Milano
e la Dr.ssa Cecilia Zoffoli, Psicologa
Centro SVS, Istituti Clinici di Perfezionamento
Clinica Mangiagalli, Milano