M.D. numero 29, 12 ottobre 2005

Diario ambulatoriale
Il lavoro in team in medicina di famiglia - Cronaca di una settimana
di Giuseppe Maso, Medico di famiglia - Venezia, Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine
Alessandra Semenzato, Infermiera di famiglia - Venezia Docente Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine

Lunedì
Maria ha abortito una settimana fa. È stato un aborto spontaneo che le è sembrato la conclusione naturale di una storia cominciata con molte paure. Ha trentadue anni, ma come molte donne di oggi sembra un’adolescente; è immatura e insicura, non è assolutamente abituata ad assumersi alcuna responsabilità, la gravidanza è stata dall’inizio qualcosa più grande di lei. Aveva i sintomi più disparati e pensava in continuazione a tutte le complicazioni possibili.
Oggi è qui con il marito, anche lui sembra un adolescente, vestito alla moda, gel nei capelli e orecchino.
L’aborto l’ha fatta cadere in una profonda depressione, piange in continuazione e non si regge quasi in piedi, ha bisogno di aiuto. Pensiamo al ruolo del marito e quanto sia importante in questo periodo. Ma il marito ci fa una domanda: “Dottore possiamo riprendere l’attività sessuale? Sa, per le mie esigenze”. Povera Maria. Che pena e che profonda sensazione di impotenza.

Martedì

Finalmente la moglie è riuscita a portarlo in ambulatorio. Paolo è uno di quelli che non vuole saperne dei medici e vi ricorre solo se costretto.
È appena stato dimesso dall’ospedale, le sue condizioni sono veramente preoccupanti; ha cinquantotto anni, ma ne dimostra almeno venti di più. Ricordo come era vent’anni fa: un gran bell’uomo, sempre sorridente e felice, con una moglie bellissima e due figli altrettanto belli.
Ma da allora non ha mai smesso di bere, se non per brevissimi periodi in corso di complicazioni acute da abuso di alcol. Ha una miocardiopatia alcolica, è ascitico e soffre di una grave neuropatia.
A differenza degli altri pazienti che bevono, lui non nega, non si giustifica né promette di smettere, anzi, ci ha ribadito più volte la sua scelta. Lui ha deciso che non si asterrà mai dall’alcol. Lo ha confermato più volte anche in presenza della moglie che lo accudisce, lo capisce e chiaramente continua ad amarlo.
Ci siamo chiesti più volte quale sia l’atteggiamento giusto da tenere: dobbiamo continuare a insistere per curarlo o dobbiamo rispettare il suo volere di essere lasciato in pace? È giusto investire risorse professionali (e anche denaro pubblico) per curare chi non vuole essere curato? È giusto farsi carico di qualcuno che continua a farsi del male deliberatamente ignorando ogni nostro sforzo?
Non sappiamo cosa rispondere, sappiamo comunque che, per la nostra formazione, continueremo a tentare di fargli cambiare idea, anche se siamo più che certi che non ci riusciremo mai.

Mercoledì

Capita a volte di concludere la giornata con un piacevole senso di appagamento, dovuto semplicemente a gesti spontanei e genuini di riconoscenza dei nostri pazienti.
Così oggi, finito l’ambulatorio, mi sono recata da un’anziana che un paio di settimane fa si era procurata una ferita alla gamba, in casa accidentalmente. La figlia mi ha avvertito dell’accaduto solo ieri; la settimana scorsa eravamo in ferie. Il medico che ci sostituiva l’aveva affidata alle cure del servizio infermieristico territoriale. Ma dopo una settimana, essendo per la famiglia problematico recarsi quotidianamente in ambulatorio, la signora aveva deciso di curarsi da sola. Trascorsa un’altra settimana senza miglioramenti ha deciso d’interpellarci.
In effetti la ferita non era di bell’aspetto, oltre alla medicazione locale con una disinfezione più accurata e un trattamento diverso da quello da lei praticato, richiedeva l’assunzione di un antibiotico per via generale.
La signora ovviamente si è lamentata per il disagio subito durante la nostra assenza, ma è stata anche contenta del mio interessamento e delle mie cure. Ha aperto il frigorifero, e mi ha offerto delle uova fresche e dei vasi di conserva fatta con i pomodori del suo orto. Una dimostrazione indiretta, se ce ne fosse ancora bisogno, che la continuità assistenziale non si basa sulla continuità delle informazioni o del metodo di gestione, ma sulla continuità del rapporto personale tra il malato e chi lo cura.

Giovedì

Oggi è venuta Paola a ritirare l’esito del suo Pap test dopo circa due mesi. Si è scusata per il ritardo, ma ha ripreso da poco il lavoro dopo la nascita del figlio; così non ha avuto molto tempo libero. Ha un’espressione tristissima, che non le avevamo mai visto prima d’ora.
Vedendo il suo indugiare davanti al mio computer, le domando come sta. In effetti, non va bene. Le hanno rifiutato la richiesta del part-time. Il che vorrà dire stare lontano da suo figlio almeno dieci ore al giorno.
Non è la prima volta che ci capita si sentire tutta la tristezza, spesso l’angoscia, di queste giovani madri che devono loro malgrado continuare a lavorare, dovendo lasciare i propri figli alle nonne, quando va bene, o agli asili nido.
C’è di che pensare: queste ragazze, dipendenti dai genitori, gioiscono quando trovano un lavoro e quindi la loro realizzazione e la loro libertà, si formano una famiglia e arriva il giorno in cui ci comunicano che forse aspettano un figlio. Facciamo insieme il test di gravidanza, gioiamo insieme quando compare il segno positivo. Le seguiamo per tutto l’iter della gravidanza. Ritornano poi con orgoglio a farci vedere il loro piccolino.
Poi il ritorno alla realtà: quel lavoro che aveva dato loro la possibilità di realizzare un sogno, ora diventa un peso, un ostacolo alla serenità. Che bel paradosso.

Venerdì

Oggi abbiamo tenuto un seminario agli studenti del sesto anno del corso di laurea in medicina e chirurgia. Abbiamo deciso di utilizzare un caso clinico come strumento didattico e abbiamo cercato di evidenziare assieme agli studenti quali fossero le competenze, le conoscenze scientifiche e le abilità necessarie al medico di famiglia per gestirlo.
Ho chiesto a un collega di portare un caso tratto dalla sua attività professionale e di esporlo agli studenti. Questi hanno ascoltato in silenzio quasi religioso la storia umana che emergeva e hanno commentato il caso in una maniera approfondita ed estremamente intelligente, andando molto al di là di quanto fosse loro richiesto. Sembrava quasi fosse la prima volta che sentivano la storia di un uomo e non quella di una malattia.
Ma la cosa che probabilmente li ha colpiti di più, e che non poteva passare inosservata, è stato il coinvolgimento del collega nell’esporlo. In quel momento lui aveva rivissuto la storia di quel paziente che aveva assistito per vent’anni; si percepivano chiaramente i suoi dubbi e le sue incertezze nella gestione dei problemi che si sono presentati nell’ultima parte dell’esistenza di quella persona. Si percepivano chiaramente anche l’amore che aveva nei confronti del paziente gravemente ammalato e l’amore nei confronti della sua professione.
Gli studenti stavano ascoltando un uomo a cui un altro uomo si era completamente affidato e stavano vivendo con lui il dramma che vive ogni medico quando si fa carico della cura di un incurabile. Credo che si ricorderanno questo seminario.

Sabato

Siamo ormai abituati a prescrivere di tutto, non solo farmaci, anzi per prescriverli abbiamo una miriade di limitazioni. Prescriviamo pannoloni, carrozzine, materassi, teli di tutti i tipi, ma mai ci era capitato di ricevere la richiesta di prescrivere un montacarichi cingolato per un paziente non autosufficiente che vive al terzo piano. Cominciamo ad avere qualche crisi d’identità.

Antonia stava chiedendo ad Alessandra la ricetta del suo abituale farmaco per l’ipertensione e chiedeva anche qualcosa per la diarrea del viaggiatore quando sono uscito dalla porta dello studio. Mi ha sorriso come al solito; è una allegra sessantenne che viaggia spesso senza il marito che non vuole muoversi da casa e ha paura dell’aereo. Mi si è avvicinata con fare furtivo e mi ha sussurrato in un orecchio, strizzandomi l’occhio: “Vado in Tunisia, ho bisogno che mi prescriva un lubrificante vaginale”.