M.D. numero 26, 21 settembre 2005

Vox Legis
Eutanasia: implicazioni penali e deontologiche
di Rosario Massari, Medico di medicina generale, Potenza

Potrebbe capitare, perché no, ad un medico di famiglia la richiesta da parte di un familiare o dello stesso paziente ormai morente e preda di indicibili sofferenze, la richiesta di introdurre nel bolo d’infusione della flebo una sostanza che acceleri e ponga fine a quell’inutile oltre che doloroso scampolo di vita. E allora? Premesso che in epoca moderna il concetto di eutanasia acquista un significato eminentemente medico, significando il diritto di darsi la morte in presenza di una situazione di male inguaribile che priva, di fatto, la vita di ogni valore e che persegue lo scopo di eliminare ogni dolore. Ma ciò che ad un medico occorre conoscere ai fini pratici non è soltanto la problematica etica, seppure importante, ma anche le implicazioni deontologiche e di legge.

Intorno al concetto di eutanasia, come pure al suo opposto (l’accanimento terapeutico), si dipana un acceso dibattito etico che comunque interessa trasversalmente culture e posizioni filosofiche le più diverse, ma meno di frequente si dà risalto a quanto piuttosto prevede a riguardo il codice penale in primis ed il codice deontologico medico poi.

Codice Penale art. 583
Circostanze aggravanti
La lesione personale č grave, e si applica la reclusione da tre a sette anni: 1. se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o unšincapacitā di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; 2. se il fatto produce lšindebolimento permanente di un senso o di un organo. La lesione personale č gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva: 1. una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2. la perdita di un senso; 3. la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacitā di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltā della parola; 4. la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso.

Al riguardo il Codice Penale prevede all’art. 579 che “Chiunque cagioni la morte di un uomo, con il consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio, se il fatto è commesso:
• contro una persona minore di 18 anni;
• contro una persona inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica (abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti);
• contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero con l’inganno.
Il successivo articolo (580) specifica: “Chiunque determini altri al suicidio o rafforzi l’altrui proposito, ovvero ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione a dodici anni. Se non avviene, con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione grave o gravissima (art. 583 del C.P.).
Le pene sono aumentate se la persona aiutata o istigata si trovi in una delle situazioni indicate ai punti 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno se la persona suddetta è minore di 14 anni o comunque è priva della capacità di intendere e volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio.

Il consenso del paziente


Stante quindi la nostra attuale legislazione, l’eutanasia è da ritenersi del tutto illecita. Bene che vada infatti può prospettarsi l’omicidio del consenziente, sanzionato quest’ultimo con una pena minore rispetto all’omicidio volontario, se il paziente esercita richieste pressanti. Ma a questo punto sorge un altro problema e cioè se il “consenso” dell’avente diritto sia valido; può essere ritenuto valido un “consenso” espresso da un paziente ottenebrato dal dolore? O addirittura in stato agonico prolungato? Se no, torna a configurarsi l’ipotesi di omicidio vero e proprio. Anzi potrebbero addirittura venir fuori aggravanti dell’omicidio volontario come: il rapporto di parentela, l’uso del “mezzo insidioso” a termine di legge, ossia il veleno (pharmacon), la premeditazione ecc.
Contrariamente al parente, in caso di suicidio non riuscito il paziente non andrebbe incontro ad alcuna sequela giudiziaria perché la legge rinuncia, nella sua saggia ratio, a punire il tentato suicidio evitando così che un dramma ne generi un altro.
Ovviamente il Codice deontologico vieta a sua volta l’atto eutanasico stigmatizzando espressamente che il principio informatore dell’arte medica non è di affrettare intenzionalmente il processo naturale della morte, bensì quello di alleviare le sofferenze.