M.D. numero 26, 21 settembre 2005

Appunti
Terapia antibiotica: raccomandazioni e pratica

A molti medici è arrivata a fine giugno una pubblicazione dedicata a un incontro tenuto presso l’Istituto Superiore di Sanità in data non specificata, sul tema della terapia antibiotica con lo slogan “Use the Best First” (usa il migliore per primo).
Ora, se non vi sono impedimenti oggettivi (non disponibilità, intolleranza grave, nota, ecc.), qualsiasi medico, per qualsiasi patologia, in qualsiasi paziente utilizza per primo il farmaco migliore. Noi medici saremo pure poco furbi, ma nessuno lo è al punto di andarsi a cercare rogne. Dunque, mi chiedo, perché fare una giornata di studio per promuovere ciò che per qualsiasi medico è ovvio? Una possibile spiegazione potrebbe essere che l’incontro sia una risposta dell’ISS alle raccomandazioni sempre più pressanti a risparmiare sui farmaci, scegliendo ove possibile le alternative più economiche. E il messaggio nascosto in questa iniziativa potrebbe essere: “Non fatevi condizionare da considerazioni monetarie nella scelta degli antibiotici”. Infatti, guarda caso, gli antibiotici promossi come più efficaci sono di solito i più nuovi e i più costosi, quelli che fanno rizzare i capelli in testa ai ragionieri del Servizio sanitario nazionale.
C’è però un problema: che cosa vuol dire “migliore”? A prima vista sembrerebbe che l’antibiotico migliore sia quello che ammazza più microbi, come numero e come varietà, nel più breve tempo possibile. Se stiamo parlando di infezioni in malati immunocompromessi, credo che possiamo essere tutti d’accordo. Ma quanti dei pazienti che curiamo noi medici di medicina generale sono immunocompromessi? E sottolinierei la parola “curiamo”. Essere il medico il cui nome è scritto sulla tessera sanitaria è una cosa, “curare” il paziente, cioè avere la responsabilità terapeutica, è un’altra. La maggior parte dei nostri pochi pazienti immunocompromessi viene curata da centri specialistici.
Chiarito ciò, proviamo a pensare al problema principale della farmacologia antibiotica, cioè allo sviluppo di resistenze e a che cosa accade a due tipi di pazienti, immunocompromessi e immunocompetenti. Il rischio di sviluppo di resistenze è sostanzialmente identico nei due casi ed esiste per tutti gli antibiotici. Se il centro specialistico usa un dato antibiotico in un paziente immunocompromesso, l’eventuale resistenza che rischia di sviluppare è totalmente dipendente dall’interazione fra antibiotico e ceppi microbici: quelli eventualmente resistenti vengono selezionati, punto e basta. È come se stesse operando in vitro: meglio quindi partire subito non solo con l’antibiotico “migliore”, ma anche a dosaggi il più elevati possibili, nella speranza di ammazzare così anche i microbi a resistenza intermedia. Se invece io medico pratico uso un dato antibiotico in un paziente immunocompetente, l’obiettivo di avvicinarmi il più possibile alla sterilizzazione è inutile (oltre che illusorio). L’obiettivo corretto è quello di ridurre la carica batterica a livelli tali per cui le difese immunitarie del paziente possano avere ragione più facilmente e velocemente della popolazione microbica rimasta.
Le difese immunitarie non fanno distinzione fra microbi sensibili e microbi resistenti a un dato antibiotico: se escludiamo i casi in cui è possibile lo stato di portatore sano, li ammazzano tutti. Ma per la stessa mancata distinzione, proprio nel caso del portatore sano l’uso di antibiotici “potenti” è paradossalmente più pericoloso da un punto di vista ecologico: o lo usiamo a dosi sterilizzanti (praticamente impossibile in vivo), o rischiamo di rendere il paziente portatore sano, e quindi disseminatore, di ceppi resistenti proprio a un antibiotico che potrebbe essere prezioso nei casi più disperati. È evidente quindi, per queste considerazioni, che “migliore” non è affatto sinonimo di più potente: nella pratica quotidiana del medico di medicina generale l’antibiotico migliore è quello che “aiuta” il paziente (qui non si tratta di salvarlo, anche se a molti di noi fa piacere crederlo), senza dilapidare le risorse finanziarie limitate di “un’assicurazione pubblica” già sull’orlo del fallimento.

Antonio Attanasio

Medico di medicina generale
Mandello del Lario (LC)



Domanda di salute e doveri contributivi


E' sempre più palese la sensazione che chi lavora e chi legifera abita due mondi diversi, non comunicanti fra loro. Ho di recente ascoltato un’intervista all’assessore alla Sanità della mia Regione (Friuli Venezia Giulia), peraltro un collega. Ebbene, malgrado la comunanza professionale, quando riveste il ruolo di politico si adegua al suo idioma. Parla infatti un’altra lingua, incomprensibile a chi lavora in prima linea ogni giorno.
“La qualità dell’offerta sanitaria deve essere all'altezza della sempre maggiore richiesta di salute”, questi, in sintesi, i suoi argomenti. Ineccepibili sul piano teorico, ma riferiti ad una realtà che io, persona comune, non conosco. Io vedo - e sfido chiunque a dire il contrario - che realmente la richiesta di salute è sempre maggiore, ma i bisogni che ne stanno all’origine non sempre sono reali, oggettivi. Molto spesso sono indotti (dai media, dalla pseudo educazione sanitaria, ecc.), ma, quel che è peggio, anche dalla mancanza di un adeguato dovere contributivo per larga parte dell’utenza.
Il nostro sistema sanitario è sul punto di implodere perché non ci sono soldi, è questa la verità. Ma se lo Stato, da solo, non è in grado, di garantire l’assistenza sanitaria richiesta, allora è giunto il momento di sensibilizzare, responsabilizzare e rendere partecipe i cittadini. Basterebbe un solo gesto - ma ci vuole il coraggio di scrollarsi di dosso la demagogia - per innescare un circolo virtuoso dalle molteplici ricadute positive.
Sarebbe sufficiente insomma imporre a tappeto la partecipazione, diversificata in base al reddito, alla presenza o meno di patologia, rapportata al costo della prestazione, ma comunque estesa a qualsiasi tipo di prestazione erogata dal Ssn, incluse visite domiciliari, accessi in ambulatorio, fino alla confezione di farmaci a basso costo.
Tale decisione potrebbe riportare alla realtà la domanda sanitaria, educare l’utenza più che non cento trasmissioni televisive o articoli su rotocalchi, evitare il tracollo del sistema sanitario, anzi, porre le condizioni per un migliore funzionamento dello stesso, anche verso quei reali bisogni che adesso vengono affrontati in maniera insoddisfacente per mancanza di risorse.

Vito Cavallaro

Medico di medicina generale
Pùlfero (UD)

Punture
Ristoriamoci: è d¹obbligo
Ad ogni nuovo rinnovo contrattuale per la medicina di famiglia cresce la sensazione, e con essa il disagio, che la Parte Pubblica cerchi sempre più di equiparare i medici di medicina generale ai medici dipendenti. La linea di demarcazione diventa sempre più sottile. L’impressione è che ai medici di famiglia si desideri fare scontare non so quali privilegi, in realtà penalizzandoli rispetto ai colleghi dipendenti, forse involontariamente (lasciamo pure il beneficio del dubbio). L’ultima trovata? I 30 giorni di ristoro psico-fisico (non uno di più) che, secondo il nuovo accordo collettivo nazionale, spettano annualmente ai Mmg. È chiaro che quando il Mmg decide di prendersi il dovuto ristoro deve darne comunicazione all’Azienda sanitaria.
Ma tutti i dipendenti che, per un motivo o l’altro, non usufruiscono delle ferie completamente nell’anno hanno il diritto di cumulare i giorni mancanti sulle ferie dell’anno successivo come recupero. Nel contratto dei Mmg di ciò non se ne parla, tanto è solo ristoro.
Spero proprio che i colleghi abbiamo trascorso delle “ritempranti vacanze” per potere affrontare con un diverso e ristorato spirito i compiti professionali di tutti i giorni.

Fabio Cocconi

Medico di medicina generale, Gazoldo (MN)