M.D. numero 24, 29 giugno 2005

Dibattito
Progetto di legge Prosperini: la discussione continua
di Maurizio Bruni, Medico di medicina generale, Milano


Ho letto con piacere l’articolo firmato dagli amici e colleghi Botta, Brocchieri, Donati e Sferrazza (M.D. 2005; 22: 11). Ma le osservazioni fatte a quanto da me espresso (M.D. 2005; 15: 14) in merito al progetto di legge Prosperini per la Regione Lombardia mi portano necessariamente a controbattere e a entrare nel dettaglio delle critiche poste al progetto.
Soprattutto vorrei sottolineare che tale proposta mi appare da un lato eccedente il nostro dovere di medico convenzionato per la medicina generale, e dall’altro utopico, non in grado di dare realmente una risposta ampia e globale alle problematiche della medicina di famiglia. Inoltre la sua realizzazione pone anche molti dubbi medico-legali.


La sostanza della proposta che ha portato alla presentazione del progetto di legge lombardo, secondo quanto sottolineato dai colleghi, è il “frutto di innumerevoli incontri e lunghe discussioni” col collega Prosperini e può essere così riassunta: alcuni colleghi vogliono avere la possibilità di “iniziativa e di cimentarsi con metodiche che (rischiamo di trovare) nelle nostre intraprendenti farmacie”: quindi si dia il via a “prestazioni complesse ... anche riabilitative”, via alla possibilità di eseguire, in proprio, esami di laboratorio (“di dubbia pertinenza specialistica”), naturalmente per “dare ai medici operanti in ... piccoli Comuni e zone disperse ... un servizio ineguagliabile per potenzialità diagnostiche e terapeutiche, come servizio ineguagliabile per la cittadinanza, oltre che ... una retribuzione aggiuntiva adeguata”.
Ma la differenza fra l’utopia e il bel progetto risiede proprio nella sua realizzazione, assieme ai concreti vantaggi per operatori e utenza.
In sostanza si ipotizza, per i medici che lavorano nelle condizioni in cui probabilmente operano i colleghi, questo scenario: il medico effettua nel suo studio la visita e la prescrizione di un esame di laboratorio, o una biopsia mammaria, o un’ecografia pelvica transvaginale. Il paziente (se a digiuno ecc.) si sposta di tre metri, al di là della porta a destra, dove trova ancora lo stesso medico che gli fa un bel prelievo o la biopsia o l’ecografia.
Il sangue (o il materiale organico, liquor, urine, feci, ecc.) viene portato nel laboratorio della porta accanto dove, ancora lo stesso MdF, opera l’analisi biochimica o citologica o istologica (“di dubbia pertinenza specialistica”. Ma allora a cosa serve specializzarsi in anatomia patologica?).
Il medico quindi rientra di corsa nel suo studio e ora consiglia al paziente successivo (fatto accomodare dalla segretaria) un bel ciclo riabilitativo: per esempio 8 radar, 6 ionoforesi, 6 massaggi manu medica, oppure un’ecografia. Per dare immediatezza ed efficacia alla terapia il paziente è indirizzato nella porta a sinistra, dove trova ancora lo stesso medico che lo sottopone alla terapia (magari con l’impiego di ausiliari), o esegue un’ecografia pelvica transvaginale, mentre nello studio si accomoda il paziente successivo.
Perdonate, ma il ricordo di Alberto Sordi che interpretava il dott. Guido Tersilli nel mitico film “Il medico della mutua” mi nasce irresistibile.

Questioni di mission


Ciò che ci divide è appunto il fatto che i colleghi vedono un medico - imprenditore, che lucra (anche questo termine non piace, ma dal dizionario italiano si evidenzia che esso esprime solo il ricavare guadagno dal proprio operare) arrabattandosi a fare azioni per cui non ha (probabilmente) esperienza, per cui non è specialista, per le quali non è preparato, allo scopo di integrare (riconosciamolo) il nostro magro salario.
La critica maggiore che ho esternato al progetto di legge (mi si perdoni, ma non è una proposta di legge, quindi parlamentare, ma solo un progetto regionale) sta proprio nel fatto che quanto in esso contenuto non serve ad identificare con appropriatezza il nostro lavoro, e ci colloca lontanissimi dal medico di famiglia europeo, e aumenta solo la confusione: possiamo essere “liberi professionisti puri”, e quindi lucrare dal nostro lavoro nel campo della libera professione, con piena libertà di scelta del cittadino, nella competizione con altri colleghi, “oppure liberi professionisti convenzionati” (non riesco nemmeno a sognare la dipendenza), e quindi svolgere il lavoro (di diagnosi e cura nel campo della medicina generale) per cui siamo convenzionati, oppure scegliamo di essere “imprenditori” nel campo della sanità, e quindi lucrare sulle prestazioni, sia per numero che per qualità. A proposito, che le tariffe per le strutture accreditate siano poi così “poco lucrative” come affermano i colleghi, mi sembra poesia, oppure si crede che i grandi imprenditori della sanità viaggino su asinelli con lo spirito del buon samaritano? Generalmente io li vedo viaggiare in Porsche.
Ma il problema risiede proprio qui: tali strutture sono “accreditate”, quindi hanno dimostrato (o dovrebbero) alla Regione di avere strumentazione idonea, personale qualificato, spazi proporzionali al lavoro, caratteristiche igieniche e sanitarie identificate, e così via.
Noi dovremmo, in quest’ottica, essere professionisti convenzionati dalle 8 alle 10, quindi trasformarci in centro accreditato per prelievi dalle 10 alle 12, e in centro riabilitativo dalle 12 alle 18, per occupare magari i ritagli di tempi con un laboratorio di citologia e istologia e occasionali ecografie?
Lasciatemi sollevare più di qualche dubbio sulle possibilità di realizzazione, ma anche sulla deontologia di tali prestazioni: un medico convenzionato può essere autorizzato a prescrivere gli esami, la riabilitazione e quant’altro affinché lui stesso li esegua? Ma allora allarghiamoci anche alla farmaceutica ed estromettiamo i farmacisti che “lucrano” sulle nostre prescrizioni.
L’altro grosso problema, che il progetto di legge ignora, è la giusta remunerazione del medico di fiducia: su questa materia il dibattito in Italia è ampio, mentre in questo caso si suggerisce solo una scorciatoia, valida poi, come scrivono i colleghi, “per i piccoli Comuni”, non per “i sindacalisti delle metropoli”. E questa è forse una discriminazione.
L’articolo si conclude, giustamente, invocando la fiducia nella onestà e trasparenza di chi scrive, affermando che non ci si sente “diversi dagli altri medici che ordinano gli accertamenti che verranno eseguiti altrove”.
Conosco i colleghi e anche la loro onestà e trasparenza cristallina e non dubito che vivono con entusiasmo l’ipotesi di questo progetto che hanno contribuito a creare: ma essi affermano anche che, purtroppo, solo “la gran parte della nostra categoria è meritevole di fiducia”. E gli altri?
Io vedo questo progetto, da un lato eccedente il nostro dovere di “medico convenzionato per la medicina generale”, e dall’altro utopico, realmente non in grado di dare una risposta ampia e globale alle problematiche della medicina di famiglia e carico di dubbi anche medico-legali.
Riappropriamoci piuttosto del nostro lavoro, della dignità anche economica che l’ultimo ACN ci sottrae e poi pensiamo magari ad applicare i contenuti di questo progetto di legge (se Prosperini, impegnato nel suo assessorato allo Sport ne avrà ancora intenzione) nelle località realmente disagiate, con i necessari controlli di qualità (che non ho visti citati nel progetto) e di gestione, nell’unico interesse della salute dei nostri pazienti.

Un po’ di rammarico


Saluto gli amici e colleghi con un velo di rammarico: nel cappello introduttivo del loro scritto è definito “generico e demagogico” il mio approccio al problema. Nelle righe sottostanti non emerge né la mia pretesa genericità, né la demagogia del mio intervento: emerge solo che il collega Prosperini è stato rieletto con una valanga di voti anche “lucrando” su tali coup d’éclat.
Ma soprattutto gli amici e colleghi commettono una piccola svista: non sono (da molti anni) consigliere regionale: quando lo ero, in epoca precedente la riforma della Costituzione, tale materia (le problematiche della nostra categoria) non faceva parte dell’ordinamento legislativo regionale. Non sono quindi imbarazzato per l’attività che ho svolto (o per le presunte omissioni) in qualità di consigliere regionale, anzi sono convinto di aver compiuto all’epoca un lavoro utilissimo per la nostra categoria e per la Lombardia, come peraltro alcuni di questi stessi colleghi mi hanno ripetutamente detto, collaborando con me fino al 1999.