M.D.
numero 24, 29 giugno 2005
Diario
ambulatoriale
Il lavoro in team in medicina di famiglia
- Cronaca di una settimana
a cura di Giuseppe Maso, Medico di famiglia - Venezia,
Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia, Università
di Udine
Alessandra Semenzato, Infermiera di famiglia - Venezia, Docente
Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine
Lunedì
L'altro
ieri ero a cena con un gruppo di amici e come sempre, inevitabilmente,
quando nel gruppo c’è un dottore, qualcuno ha da
raccontare qualche suo problema di salute o qualche sua avventura
nel mondo della sanità.
Uno dei commensali ha raccontato come, due anni fa, dopo avergli
rimosso l’apparecchio gessato gli feci un’artrocentesi
al ginocchio e, con un’infiltrazione risolsi, praticamente
subito, il suo problema. Non mi ricordavo assolutamente dell’episodio;
si tratta, infatti, di una procedura frequente e sicuramente
non eccezionale, ma dalla descrizione fatta mi sono reso conto
che, al contrario, la procedura era invece eccezionale e importante
per chi l’aveva subita.
L’episodio mi ha fatto pensare a proposito della percezione
e della visibilità dell’operato di un medico. Stamane
ne abbiamo parlato e ci siamo resi conto che l’impatto
della nostra professione sulla società è la somma
di un enorme numero di sensazioni singole; ogni nostro atto
si rivolge principalmente a una singola persona e riguarda,
quasi sempre, la sua sfera più intima, quella legata
ai suoi problemi e alle sue paure. Il risultato del nostro intervento,
quasi sempre, si propaga al massimo a livello familiare. In
ogni caso l’intervento medico viene percepito come eccezionale,
importante o risolutivo quando elimina una sintomatologia acuta,
un sintomo fastidioso o risolve un problema non risolto in precedenza
da altri professionisti.
Questo è ovvio se consideriamo che la gente (la maggior
parte delle volte) non ha strumenti per giudicare l’operato
di un medico. Sono considerati bravi i medici e gli infermieri
che sono disponibili, che soddisfano le richieste dei pazienti
e fanno di tutto perché si sentano seguiti. Ma noi addetti
ai lavori sappiamo benissimo come ci sia spesso una grande differenza
fra ciò che la gente vuole e quello di cui invece avrebbe
veramente bisogno.
In ogni caso, la considerazione pubblica del nostro operato
è frutto di percezioni che non sono sempre legate alla
nostra abilità e ai risultati che otteniamo.
È legata a incarichi professionali (un primario per definizione
ne sa più di un aiuto), all’immagine e anche alle
parcelle. A differenza degli altri professionisti, noi non lasciamo
tracce valutabili e confrontabili pubblicamente; le opere di
un ingegnere o di un architetto, anche se rivolte a un singolo,
sono palesi e giudicabili pubblicamente. Noi prestiamo la nostra
opera senza essere pagati direttamente e nella nostra società
ha valore solo ciò che ha un prezzo; agiamo sempre in
una sfera privata e ciò che non è pubblico e famoso
ha sempre un’immagine di secondo piano. Non abbiamo carriera
e quindi non abbiamo titoli per poter essere più autorevoli
di chi li ha.
Crediamo che dovremmo far conoscere di più il nostro
lavoro e i nostri problemi alla gente, sicuramente saremmo visti
con occhi diversi. Abbiamo comunque il sospetto che questa disinformazione
non sia casuale.
Martedì
Ultima telefonata della giornata: “Come la mettiamo Alessandra?
Mi hai detto poco fa che avrei dovuto prendere due compresse
di antibiotico al giorno, una alla mattina e una alla sera,
ma qui, nella prescrizione vedo scritto una compressa ogni dodici
ore”. Rispondo: “Mi pare che sia la stessa cosa: fino
a prova contraria ventiquattro diviso due fa dodici”.
La signora 79enne scoppia a ridere fragorosamente dicendo: “Sono
proprio contenta d’essermi fatta un’altra bella risata
assieme a te!”.
La signora ha perso il marito circa sette mesi fa, da allora
è diventata un’assidua frequentatrice del nostro
ambulatorio, vive sola e sta passando un brutto periodo. Siamo
contenti se la sentiamo ridere.
Mercoledì
Massimo ha avuto fin da piccolo la passione per la cucina: il
padre ha sempre fatto il cuoco e gli ha trasmesso l’entusiasmo
per la professione. Ha fatto la scuola alberghiera e, dopo un
certo periodo di apprendistato, ha cominciato a lavorare, prima
come aiuto, poi come primo cuoco. Molto apprezzato, ha lavorato
anche in locali prestigiosi, ma ogni volta che gli veniva data
la responsabilità completa della cucina andava completamente
in crisi.
Veniva preso da crisi d’ansia, poi di panico e cadeva in
depressione. Ha dovuto cambiare diversi posti di lavoro.
L’abbiamo visto l’ultima volta circa due anni fa:
stava bene, viveva con una bella ragazza spagnola e aveva deciso
di sospendere la terapia antidepressiva. È partito per
fare il cuoco in terra di Spagna. Oggi sono venuti a trovarci
i suoi genitori. Il motivo della visita riguardava Massimo.
In Spagna era molto apprezzato ma, ancora una volta, all’apice
professionale era stato colto da panico e depressione; ha smesso
di lavorare, vive solo e la bella spagnola lo ha abbandonato.
Sono venuti a raccontarci la sua storia, come fosse ancora seguito
da noi, per sottolineare che esiste ancora un legame con noi
che lo abbiamo curato in passato. E questo legame esiste, veramente.
Abbiamo il presentimento (e la speranza) di risentirlo presto.
Giovedì
Abbiamo inviato un manoscritto a un’importante rivista
europea di medicina generale. Ci sembra un lavoro di ricerca
interessante e originale; ha coinvolto cinque ambulatori di
medicina generale ed espone i risultati di un’osservazione
su duemila visite ambulatoriali. Siamo soddisfatti del manoscritto
e come sempre attenderemo con ansia la risposta dell’editor
del giornale.
Con ansia perché potrebbero esserci delle critiche sul
metodo (speriamo di no) e sulla lingua (quasi sicuramente).
Nonostante il lavoro sia stato tradotto da una professoressa
di madre lingua e rivisto da un’altra madre lingua, siamo
sicuri che ci saranno delle osservazioni.
La medicina di famiglia italiana ha molte difficoltà
nel produrre ricerca; non esistono dipartimenti universitari
della disciplina, non esiste tempo protetto, non esiste formazione
e, proprio per tutto questo, coloro che si danno da fare in
questo campo sono, a nostro avviso, veramente meritevoli di
plauso.
Ma è frustrante, quasi umiliante, il fatto che per divulgare
i dati di qualsiasi lavoro si debba rivedere il manoscritto
più volte perché la lingua non è perfettamente
“native english” e che spesso questo sia l’unico
motivo di non pubblicazione. Sentiamo, veramente, la mancanza
di una rivista italiana indicizzata di medicina di famiglia.
Le scuole di formazione specifica, i corsi universitari undergraduate,
le società scientifiche e la professione sarebbero sicuramente
in grado di fornire un numero di lavori sufficiente. Dovremmo
avere un po’ più di orgoglio.
Venerdì
Oggi ho tenuto una lettura nell’ambito di un corso di formazione
per tutor in medicina generale. Comunque vadano, queste sono
sempre esperienze importanti; non ho mai pensato di insegnare
qualcosa ai miei colleghi, anzi, ma mi piace fare da enzima,
mi piace stimolare e talvolta provocare. Penso che gli scambi
di opinione e di esperienze non siano mai troppi; ogni volta
imparo qualcosa, ogni volta conosco qualcuno con cui condividere
soddisfazioni e frustrazioni, ansie e sicurezze. Ogni volta
mi rendo conto di quanto sia grande e nello stesso tempo fragilissima
la medicina di famiglia italiana.
Contrariamente a quanto si possa pensare, è una disciplina
omogenea su tutto il territorio nazionale e dappertutto è
fatta da un grande numero di bravi professionisti. Noi stessi
non ci rendiamo conto di quanto facciamo e questa nostra incoscienza
è proprio la prima responsabile della scarsa considerazione
in cui, spesso, siamo tenuti.
Noi diamo per scontate le competenze diagnostiche e le abilità
che usiamo tutti i giorni e così siamo caduti in una
trappola. Oggi, i colleghi interpellati su quali fossero gli
aspetti fondamentali da insegnare agli studenti ne hanno individuati
tre: la relazione, la medicina legale e la burocrazia. Siamo
caduti nella trappola. Abbiamo scambiato gli strumenti con il
core della disciplina, ci siamo dimenticati della specificità
della nostra clinica e del nostro metodo. Li diamo per scontati,
ma la nostra esistenza, la nostra unicità e la nostra
forza si basano proprio su questi e questi sono i nostri valori,
dobbiamo trasmetterli, insegnarli e sbandierarli.
Sabato
“Dottore, mio marito è appena tornato dal lavoro
e non sta bene, ha vomitato e gli gira un po’ la testa”.
Il marito è un uomo di cinquant’anni in buona salute.
“Signora, adesso sono in casa di riposo, se non ha febbre
o altri sintomi, lo metta a letto e stiamo a vedere; la richiamerò
fra un po’”. Dopo un’ora richiamo la signora:
“Come va suo marito?”, “Caro dottore ho già
chiamato l’ambulanza. Non posso mica aspettare i suoi comodi!”.