M.D.
numero 23, 22 giugno 2005
Riflessioni
Io medico di famiglia e le cure palliativeno
di Maurizio Gozzer - Medico di medicina generale,
Vicenza
Accompagnare il paziente nel suo ambiente familiare durante
la malattia grave non solo è uno dei doveri
e dei compiti del Mmg, ma può essere unesperienza
coinvolgente e motivante in cui si percepisce lunicità
e la peculiarità del nostro ruolo professionale.
Ho
letto con grande interesse larticolo del collega Ivano
Cazziolato La gestione della malattia grave
(M.D. 2005; 16: 28-29) in quanto ho trovato il contenuto sintonizzato
sulla mia lunghezza donda professionale.
Per me, da sempre, laccompagnare il paziente alla morte
nel suo ambiente familiare è stato considerato come uno
dei momenti più coinvolgenti, più profondi, più
professionali e più gratificanti del mio operare.
Non tutti i medici di medicina generale però sono propensi
o entusiasti di farsi carico di una terapia palliativa familiare,
per svariati motivi, preferendo solitamente demandare tale impegno
alla struttura pubblica.
Sono invece fermamente convinto che la terapia palliativa per
i malati terminali rientri nei doveri e nei compiti del medico
operante nel territorio.
Lempatia
Non è un caso che in tali frangenti il rapporto empatico
che caratterizza il ruolo dei medici di famiglia risulti fondamentale.
Mi ha sempre fatto una certa impressione, infatti, vedere spesso
il mio nome a piè di pagina di unepigrafe con i
ringraziamenti della famiglia. Se qualcuno vuole esternare pubblicamente
i suoi sentimenti di riconoscenza, non allamico, ma al
suo medico, vuol dire che questo ha operato bene, che è
stato di aiuto, che ha fatto il lavoro per cui è pagato.
Sembrerà assurdo, ma in poche settimane di assistenza
domiciliare a malati terminali divento più visibile del
Professor X che ha fatto il brillante intervento al paziente
o al Professor Y che lha accompagnato per mesi, se non
per anni, nel corso di terapia antiblastica.
Questo mio sentire e operare di conseguenza, è
probabilmente da addebitare al fatto che ho sempre percepito
razionalmente la realtà della mia impotenza professionale.
Un sentire che si acuisce soprattutto quando mi relaziono a
malati terminali e cresce giorno dopo giorno allavvicinarsi
allexitus del paziente. Limpotenza da me percepita
va intesa come completa incapacità tecnica di cambiare
il corso naturale degli eventi. Ma proprio da questo mio limite
nasce la forza per continuare a fare il mio lavoro di medico,
chiamato ad accompagnare il malato e la sua famiglia nei suoi
bisogni quotidiani, sganciato finalmente da ununivoca
visione efficientista e meccanicista della malattia e del malato
e dalla mera quantificazione statistica della mia finalità
operativa.
Il medico umanista
Ci sono molte tipologie di medico, basta considerare tutte le
specialità e sottospecialità esistenti (fortunatamente).
Pur tuttavia a me, medico di famiglia, è dato di recuperare
la peculiarità di medico umanista. Parola
intesa nella sua accezione storica, ideologica, esistenziale,
di medico cioè che torna a farsi carico dellumanità
globale del paziente, non chiamato a cambiare gli eventi, ma
a compatire (con-pathos) con gli stessi in modo
attivo, utilizzando in modo appropriato gli strumenti del suo
lavoro.
Ogni uomo ha diritto non solo a una vita decorosa, ma anche
a una morte dignitosa e per questo dovrebbe avere la possibilità
di poter terminare la propria esperienza terrena non nella freddezza
formale di una casa di raccolta per moribondi e nellasetticità
di un ospedale, ma in un contesto affettivo in cui qualcuno
si prende cura di lui.
Al riguardo, mi ha significativamente impressionato Madre Teresa
di Calcutta che andava a recuperare i moribondi nelle strade
per dare a quei poveri sfortunati almeno nel momento del trapasso
un minimo di dignità. Un atteggiamento fortemente criticato
da coloro che sostenevano che forse era più proficuo
e caritatevole portare da mangiare agli affamati vivi, che pulire
le piaghe di condannati a morte. Daltra parte il malato
terminale potrebbe essere paragonato a un emigrante costretto
ad allontanarsi dalla sua casa, dal suo ambiente sociale, per
problemi di forza maggiore, ma il suo sogno resta quello di
poter tornare là da dove è partito.
Portatore di speranza
Un mio caro paziente, avvocato, morto per cancro pancreatico,
in uno dei nostri incontri mi disse che le categorie professionali
peggiori sono quelle degli avvocati e dei medici. Entrambi
questi professionisti - sottolineò - quando vedono luomo
indebolito e nel bisogno si accaniscono su lui e dopo averlo
ben spolpato, lo abbandonano sulla strada nudo e solo. Però
- concluse - il medico è migliore dellavvocato
perché almeno lascia la speranza.
Anche in corso di terapia palliativa il medico, nonostante tutto,
per il malato diventa la persona della sua speranza ancora di
più che in altri momenti.
Condizioni e necessità
Va comunque sottolineato che per poter effettuare un intervento
domiciliare prima di tutto è necessario che le condizioni
cliniche del paziente non abbisognino di particolare impegno
tecnico, che solo lospedale può dare. È
indispensabile inoltre che ci sia il retroterra di una famiglia
sufficientemente vincolata negli affetti da supportare un percorso
non privo di ansie e di tensione emotiva. Il paziente, soprattutto
se giovane, anche se non lo dimostra apertamente, gradisce di
sicuro il domicilio come cura, a parità di interventi
medici fattibili.
Il nucleo familiare generalmente arriva ad accettare questa
soluzione pre-terminale solo dopo essere arrivata alla penultima
delle fasi di passaggio che, come il collega Cazziolato ha ben
descritto, caratterizzano ladattamento e la presa di coscienza
della situazione e cioè la fase dellaccettazione
che chiamerei anche della rassegnazione o dellestremo
affetto.
Importanti sono anche lassistenza di supporto sociale
e infermieristica del territorio, per poter dare allammalato
tutto il servizio di cui ha diritto e bisogno, come si deve
pretendere in una società economicamente e culturalmente
evoluta come la nostra.
Il triangolo terapeutico
Il triangolo terapeutico ben delineato dal collega Cazziolato,
in cui nel sistema familiare due persone sono vicine e
una più lontana può reggere solo quando
famiglia e medico attuano una resistenza attiva, mentre il paziente
diventa sostanzialmente passivo e completamente dipendente.
Fino a qualche anno fa lesigenza della gestione domiciliare
del malato grave era richiesta solo dal paziente e dalla famiglia,
ultimamente è la struttura pubblica che prende la decisione
di dimettere il paziente ospedalizzato e caricare il nucleo
familiare della responsabilità gestionale della terapia
palliativa.
Cè sempre un iniziale atteggiamento di resistenza,
soprattutto quando tale impegno arriva inaspettato e a ciel
sereno, per cui solitamente scattano meccanismi dansia
e di smarrimento ben comprensibili. Ma posso confermare che
con un piccolo lavoro di convincimento, se ci sono le premesse,
si riesce a far condividere appieno questa esperienza che sarà
anche per la famiglia emotivamente forte e unica.
Figure di riferimento
Di solito la famiglia seleziona spontaneamente allinterno
della stessa un leader, una figura di coordinamento del vissuto
quotidiano, che può essere un coniuge, un figlio o altro
collaterale al nucleo; a lui è demandato il compito di
coordinare le decisioni pratiche e di tenere i rapporti continuativi
con le figure professionali, infermiere e medico.
Laltra figura di riferimento è il medico curante
che oltre alla sua abilità professionale deve dare alla
famiglia sicurezza. In effetti nel triangolo il lato inerente
alla famiglia è instabile, in quanto ci possono essere
allinterno tensioni emotive e forze centrifughe. Solo
se il medico resta saldo nel suo ruolo di affidabilità
e di stabilità, si può portare a termine con successo
la terapia palliativa domiciliare.
Riappropriazione del paziente
È vero che in questi anni lambulatorio dei medici
di famiglia assomiglia sempre più a un supermercato dove
girano i carrelli dellAsl, di certi colleghi specialisti
e dei pazienti e il nostro dovere di Mmg sembra diventato solo
quello di riempirli passivamente. Ed è proprio in questo
triste contesto professionale che la cura del paziente terminale
assume una rilevanza particolare anche per il medico di famiglia,
che in quel momento viene spogliato dai suoi abiti medico-burocratici
e ritorna a indossare il camice e a fare il medico a tutto tondo.
Non più fughe, non più interferenze esterne, non
più condizionamenti: il medico rimane professionalmente
arbitro della situazione, agisce secondo scienza e coscienza
e competenza, si sente alla fine gratificato nel suo ruolo.
Possibili rischi per il Mmg
Tenuto conto del contesto professionale in cui in questo momento
opera il medico di famiglia, è bene porre laccento
che nel rapporto con il malato terminale il Mmg può incorrere
in atteggiamenti non troppo consoni alla situazione, peraltro
comprensibili e giustificati, che devono necessariamente essere
superati.
Primo tra tutti un senso di rivincita sul paziente. Per tanto
tempo il paziente è stato risucchiato da altri professionisti
della salute, al Mmg non restava altro che seguirlo da lontano
nella sua malattia, gestendo solo la ricettazione. Poi allimprovviso
torna a battere alla porta del suo medico di famiglia. Si ricorda,
o si ricordano gli altri, che ha anche un medico curante.
Il secondo risentimento da superare è quello
di vedersi considerati come medici residuali: il chirurgo ha
fatto la sua parte, loncologo ha sparato tutte le sue
cartucce, linternista afferma che la cura ospedaliera
può essere fatta a domicilio e in poche ore si scarica
il paziente al suo medico di medicina generale, quasi come fosse
materiale da rifiuto che il medico curante deve
ramazzare.
La ricerca di senso
È proprio in questi momenti che il medico deve tornare
con la mente alle motivazioni che lo hanno condotto a scegliere
di essere medico di famiglia e non unaltro tipo di medico,
per potere ritrovare il senso del suo operare. In altre parole,
tocca al singolo Mmg trovare dentro di sé quelle motivazioni
di senso e trasformarle in risorse capaci di fare superare le
frustrazioni professionali e far ripartire la relazione empatica
con il paziente e la sua famiglia in modo rinnovato.