M.D. numero 22, 15 giugno 2005

Terapia
BPCO riacutizzata: ruolo dei batteri
di Gianfranco Sevieri - Scuola di Specializzazione in Malattie dellšApparato Respiratorio, Università degli Studi di Padova

Il decorso della malattia è spesso aggravato da riacutizzazioni a eziologia infettiva, che condizionano la progressiva perdita funzionale e favoriscono la comparsa di ulteriori episodi, in un circolo vizioso che la terapia antibiotica può interrompere

Le riacutizzazioni della BPCO, definite come aggravamento delle condizioni basali del paziente, comportano un deterioramento della funzionalità respiratoria e rappresentano una causa frequente di prescrizione antibiotica. Inoltre aumentano il rischio di morbilità e mortalità a breve e a lungo termine, incidono sulla qualità di vita, limitando i pazienti nella conduzione delle più semplici attività, e sono responsabili di una percentuale significativa di visite mediche, accessi in Pronto Soccorso, ospedalizzazioni per il fallimento della terapia domiciliare, con importanti ripercussioni sulla spesa sanitaria.
Il ripetersi di questi eventi si associa a un maggiore declino funzionale e a una progressione più rapida della malattia verso livelli più gravi ed è direttamente proporzionale al rischio di ospedalizzazione e alla maggiore durata della degenza. È altresì confermato che un FEV1 ridotto si associa a una maggiore frequenza di riacutizzazioni e che le infezioni dell’albero tracheobronchiale costituiscono l’evento scatenante più comune.
Conoscere la funzionalità respiratoria di un paziente con BPCO in fase di stabilità clinica serve non solo a definire il livello di ostruzione, ma consente anche di porre una diagnosi eziologia presuntiva sui potenziali patogeni responsabili dell’episodio acuto.
Se la limitazione al flusso aereo è lieve o moderata, Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, Moraxella catarrhalis sono i batteri di più frequente riscontro. In presenza di grave ostruzione occorre invece sospettare altri agenti di infezione, quali enterobatteri gram-negativi e Pseudomonas.
La ricerca scientifica ha confermato che le infezioni dell’albero tracheo-bronchiale rappresentano l’evento scatenante più frequente delle riacutizzazioni, anche se in un 30% dei casi possono originare da distinte patologie (scompenso cardiaco, polmonite, pneumotorace, embolia polmonare), da alterazioni metaboliche (diabete), da squilibri elettrolitici, da assunzione di sedativi o ipnoinducenti, da somministrazione inappropriata di O2.

Criteri diagnostici


Per la diagnosi di riacutizzazione, in mancanza di specifiche indagini di laboratorio, ancora oggi vengono validati i criteri proposti da Anthonisen, che si basano sulla presenza di tre sintomi maggiori (aumento della quantità dell’escreato, viraggio del colore verso la purulenza, dispnea) e su criteri clinici minori (tosse, wheezing, faringodinia, congestione nasale). La presenza di almeno due sintomi maggiori o di un criterio maggiore e uno minore, e per un minimo di due giorni consecutivi, definisce l’episodio di acuzie.
Di fronte a una riacutizzazione, l’obiettivo principale è alleviare la sintomatologia respiratoria, evitando che il momentaneo declino respiratorio possa condurre il paziente al ricovero. Per migliorare la sintomatologia dispnoica e correggere l’eventuale ipossiemia la terapia farmacologia deve essere orientata, in primis, a diminuire il carico batterico nelle vie bronchiali per ridurre lo stato infiammatorio, associandola alla somministrazione di broncodilatatori short-acting e di steroidi sistemici.
Se ne deduce quindi che la maggior parte dei pazienti con riacutizzazione di BPCO sono destinati a ricevere un trattamento antibiotico e numerosi studi hanno evidenziato i benefici a breve e lungo termine derivanti dall’impiego degli antimicrobici, che vanno riservati quando sono presenti almeno due dei tre sintomi principali o comunque quando l’escreato assume i caratteri della purulenza (figura 1).

Quale terapia antibiotica?


La funzione di un antimicrobico deve essere l’eradicazione batterica, così da arrestare l’amplificazione della flogosi nelle vie aeree e del conseguente danno funzionale.
“Use the best first” è la rivisitazione recente di un concetto espresso quasi un secolo fa da Paul Ehrlich che, nel 1913, sosteneva che occorreva realizzare la “therapia sterilisans magna” ovvero ottenere la completa eradicazione del patogeno con una o poche applicazioni di farmaco. La strategia consigliata per raggiungere il risultato era definita “colpire forte e velocemente” (frapper fort et frapper vite): somministrare il farmaco al dosaggio più elevato e per il più breve tempo possibile, onde ottenere la scomparsa dei microrganismi prima di dar loro il tempo di moltiplicarsi. Mancare il raggiungimento di questo scopo - per esempio perché la scelta è caduta su un antibiotico non appropriato - condiziona il fallimento terapeutico che conduce a un aumento delle resistenze, a una maggiore frequenza di ricadute (si riduce l’intervallo libero da sintomi), e a costi addizionali, sociali ed economici molto elevati (figura 2).
Prolungata assenza dal lavoro, necessità di una nuova visita medica, antibiotico alternativo, richiesta di approfondimenti diagnostici, ospedalizzazioni rappresentano le conseguenze di un intervento terapeutico errato.
L’eradicazione, inoltre, implica una maggiore riduzione della flogosi durante la fase di quiescenza della malattia, dilaziona il tempo tra le riacutizzazioni e si associa a una ridotta antibiotico-resistenza da parte dei batteri che, non avendo possibilità di sopravvivenza, non possono mutare.
L’importante è scegliere “l’antibiotico giusto per il paziente giusto”, avendo come obiettivo primario l’eradicazione microbiologica, da cui consegue il successo clinico che preserva nel tempo la funzionalità respiratoria e consente un completo recupero dello stato di salute del paziente con favorevole impatto sulle aspettative di vita.
Questo è il motivo per cui le Società scientifiche propongono nella terapia empirica delle riacutizzazioni di stratificare i pazienti in funzione della presenza o meno di fattori di rischio.
Uno dei vantaggi di questa selezione è rappresentato dalla possibilità di identificare i pazienti che non necessitano di trattamento antibiotico da quelli in cui, invece, si rende necessaria una terapia antimicrobica più o meno aggressiva, privilegiando soprattutto quei farmaci che raggiungono elevate concentrazioni nella mucosa bronchiale, nel lining alveolare e nei macrofagi che, insieme ai polimorfonucleati, rappresentano la barriera di difesa verso i patogeni respiratori.
Le linee guida canadesi (Canadian Thoracic Society e Canadian Infectious Disease Society) per la gestione delle riacutizzazioni della BPCO pubblicate nel 2003 propongono di stratificare i pazienti a seconda del rischio di fallimento terapeutico in differenti gruppi, per ognuno dei quali sono state stilate le raccomandazioni terapeutiche di prima scelta e le eventuali alternative.
Infezioni non complicate in pazienti giovani e senza comorbilità vengono trattate con macrolidi.
In presenza invece di germi resistenti la scelta terapeutica più efficace prevede fluorochinoloni (levofloxacina, moxifloxacina) o amoxiclavulanato, che lasciano il posto a ciprofloxacina se si sospetta la presenza di patogeni “difficili” come Pseudomonas.
Se la scelta dell’antibiotico deve essere operata con l’ottica delle caratteristiche dei pazienti trattati, la transitoria difficoltà di respiro deve essere affrontata con l’impiego dei broncodilatatori e degli steroidi sistemici.
Altrettanto valide possono rivelarsi l’ossigenoterapia (a bassi flussi), purché ci sia un monitoraggio mediante saturimetro, l’assunzione di adeguate quantità di liquidi e le misure atte a favorire l’espettorazione.
Anche se la maggior parte degli episodi acuti sono destinati a ricevere un trattamento a domicilio, il peggioramento del quadro clinico dopo 48 ore, eventualmente correlato alla comparsa di nuovi segni o sintomi, impone il trasferimento del paziente in ospedale.