M.D. numero 21, 8 giugno 2005

Rassegna
Gioie e dolori del dosaggio del PSA
di Sebastiano Spatafora - UO di Urologia, Dipartimento Chirurgico I, AO “S. Maria Nuova”, Reggio Emilia

Il PSA è oggi uno dei più significativi marker oncologici a disposizione, inoltre ha mostrato la sua validità anche per l’iperplasia prostatica benigna. Accanto a questi meriti vi sono incertezze che hanno aperto il dibattito internazionale sul suo utilizzo come strumento di screening, su quali pazienti deve essere dosato e sulla sua corretta interpretazione

I
l PSA è utile per la diagnosi, la stadiazione e il follow up del carcinoma prostatico (CaP) e, da quando il suo dosaggio è entrato nella pratica clinica corrente, la gestione della neoplasia è stata rivoluzionata ed è aumentata la percentuale dei tumori della prostata diagnosticati, e quindi curati, quando sono ancora localizzati nell’organo1,2.
Recentemente il PSA ha mostrato la sua validità anche per l’iperplasia prostatica benigna (IPB) essendo risultato il più forte predittore di progressione della malattia, aiutando così a decidere quando e quale terapia medica instaurare, allo scopo di ridurre la possibilità di sviluppare una ritenzione acuta d’urina o essere sottoposto a intervento chirurgico3.
Accanto a questi meriti di indubbio grande valore, il suo utilizzo ha comportato però degli “effetti collaterali” non trascurabili, dovuti all’incertezza che ancora oggi si ha per due importanti interrogativi:
a. in quali pazienti deve essere dosato?
b. come si interpreta correttamente?

Quando dosare il PSA


Da qualche tempo stiamo assistendo a un bombardamento dell’opinione pubblica da parte dei mezzi di informazione con notizie non sempre corrette dal punto di vista scientifico che, se da un lato ha portato a una maggiore attenzione verso i disturbi prostatici, dall’altro ha avuto come conseguenza una focalizzazione eccessiva sul PSA e un aumento del numero dei dosaggi di questo marker non giustificato dalle attuali conoscenze.
Sebbene alcune autorevoli associazioni come l’Associazione Americana per il Cancro abbiano prodotto raccomandazioni relative all’opportunità del dosaggio del PSA in tutti i maschi sopra i 50 anni di età, non esistono prove scientifiche che lo screening, cioè la valutazione del marker in tutti i soggetti anche asintomatici, porti a un reale vantaggio di sopravvivenza e non alla sola anticipazione della diagnosi.
In Europa e negli Stati Uniti sono in corso due importanti trial randomizzati e controllati che valutano questo aspetto, ma i primi dati relativi all’impatto dello screening sulla mortalità e sulla qualità della vita verosimilmente non saranno disponibili prima del 20084.
In assenza di questi risultati si potrebbe pensare di essere comunque autorizzati a offrire il dosaggio del PSA a tutti gli uomini sopra una certa età nel miraggio di un vantaggio in termini di diagnosi precoce. Questo potrebbe essere accettabile per una neoplasia aggressiva, ma non per il CaP, in quanto si tratta di una neoplasia quasi “ubiquitaria” (è stato ipotizzato che l’8% dei ventenni e l’83% dei settantenni ha cellule carcinomatose nella prostata5) e poco aggressiva (l’80% sono neoplasie clinicamente non significative e solo il 3% di uomini muore per CaP)6. Pertanto con lo screening una porzione rilevante dei casi diagnosticati non è destinata a manifestarsi clinicamente nella vita.

Bassa aggressività del carcinomaNO prostatico

Siccome oggi non siamo in grado di distinguere il carcinoma latente da quello aggressivo, la sovradiagnosi comporta necessariamente un sovratrattamento.
In pratica, con il dosaggio indiscriminato del PSA rischiamo di sottoporre soggetti che non avrebbero mai avuto conseguenze dal CaP a trattamenti radicali con tutte le conseguenze che questi comportano, quali i costi psicologici (ansia, tensione, isolamento) e la morbilità psicosociale (disturbi della sessualità, della continenza e dell’umore).
Per questo motivo venti società scientifiche italiane hanno elaborato un documento comune in cui si ribadisce che non vi è, al momento, l’indicazione all’esecuzione dello screening di soggetti asintomatici mediante il PSA7.
Un discorso diverso è rappresentato ovviamente dall’uso del marker in ambito clinico, in occasione di una consultazione medica di un paziente con sintomi delle basse vie urinarie (LUTS). In questo caso il PSA resta il migliore presidio per orientarsi verso la diagnosi del carcinoma prostatico e deve essere dosato ove esista un sospetto clinico anche minimo di tale patologia.
La bassa aggressività del CaP comporta anche incertezze su quale sia la terapia ottimale delle neoplasie ancora localizzate nell’organo. In Svezia, pazienti con neoplasie in fase iniziale sono stati seguiti con la sola “vigile attesa” per più di venti anni, con la rilevazione che la maggior parte dei tumori hanno un atteggiamento indolente per 10-15 anni, ma che con follow up maggiori aumenta la percentuale di progressione della malattia e di decessi8.
Sulla base di queste osservazioni le linee guida raccomandano il dosaggio del PSA solo nei pazienti che trarrebbero giovamento dalla terapia, cioè quelli che hanno almeno 10 anni di aspettativa di vita3.

Come interpretare i valori del PSA

I fattori che rendono difficoltosa l’interpretazione del PSA sono molteplici.
Il dosaggio è influenzato da manovre strumentali quali la biopsia prostatica, l’uretrocistoscopia e il massaggio prostatico, da farmaci (finasteride), dalle infezioni delle vie urinarie e dall’attività fisica. Dubbi, viceversa, si nutrono sull’impatto dell’eiaculazione. Il valore del marker può essere alterato se non conservato a temperatura idonea e varia a seconda del metodo analitico di laboratorio.
È importante pertanto che vi sia una standardizzazione del processo che porta all’analisi del PSA: non dosarlo dopo manovre invasive, dopo sforzi fisici, in corso di infezioni urinarie e, eventualmente, dopo rapporto sessuale e utilizzare laboratori che seguono uguali procedure e metodi di analisi.

Sensibilità e specificità del test

Nonostante si usino queste accortezze, il valore del marker può risultare non indicativo per l’alta variabilità intraindividuale che presenta. È stato calcolato che un paziente con PSA “reale” di 4 ng/ml, ha il 40% di probabilità di presentare una misurazione non corretta (maggiore o minore di 4 ng/ml)9 che potrebbe risultare tra i 2.8 e i 5.2 ng/ml solo per effetto del caso.
Nell’interpretare il risultato di un esame bisogna aver ben presente la problematica della variabilità intraindividuale del marker, controllando sempre con una seconda misurazione un valore alterato e, nei casi dubbi, eseguire un dosaggio ripetuto a distanza di pochi giorni per smascherare eventuali artefatti di misurazione.
Per quanto riguarda i pazienti in terapia con finasteride, alla luce dei dati dello studio PLESS10 si evince che il valore rilevato dovrebbe essere raddoppiato (per esempio PSA osservato 2.5 ng/ml, PSA da considerare 5 ng/ml), tenendo presente però che vi sono forti variazioni individuali di risposta del marker al farmaco che vanno dal -80% al +20%.
Il fattore maggiormente confondente nell’interpretazione dei valori del PSA è la mancata specificità del marker per la neoplasia; questo significa che il PSA può essere elevato non solo in caso di CaP, ma anche in presenza di prostatite e di IPB, rendendo difficoltosa la diagnosi differenziale tra patologia maligna o benigna.
La sensibilità del test, cioè la capacità di riconoscere i pazienti con neoplasia prostatica, è inversamente correlata con la sua specificità, cioè la capacità di discriminare le patologie benigne. Tali parametri variano al variare del cut off: più il valore soglia è basso, maggiore è la sensibilità e minore è la specificità. Alla misura limite oggi maggiormente utilizzata (4 ng/ml) corrisponde una sensibilità dell’80%6, cioè si perdono 2 neoplasie su 10, mentre nel range 4-10 ng/ml la specificità è del 25%11, cioè 3/4 dei pazienti sono falsi positivi, avendo un valore fuori scala senza essere portatori di una patologia maligna.

Dibattito sul valore soglia


È da tempo aperto il dibattito sulla necessità di abbassare il cut off per ridurre il numero di neoplasie “perse”. Recenti studi randomizzati di ampia casistica hanno rilevato che il 15% di pazienti con PSA
<4 ng/ml aveva una neoplasia prostatica12 e altri autori hanno suggerito di abbassare il valore soglia a 2.5 ng/ml13. Tali informazioni sono state diffuse anche dai media nazionali; tuttavia bisogna sottolineare che l’abbassamento del cut off può comportare il rischio di diagnosticare carcinomi clinicamente non rilevanti. Fino a quando non sarà dimostrato che un atteggiamento terapeutico aggressivo è in grado di comportare un miglioramento della sopravvivenza e della qualità della vita dei pazienti con CaP, questa raccomandazione non è pronta per l’applicazione nella pratica clinica corrente14,15.

La problematica delle biopsie non necessarie

Abbassare il valore soglia determina anche l’aumento esponenziale del numero di pazienti falsi positivi e, poiché la diagnosi di carcinoma prostatico è possibile solo con il reperto istologico, a questo conseguirebbe un alto numero di biopsie prostatiche non necessarie. D’altro canto il prelievo istologico, per essere efficace, deve essere multiplo (almeno 8, meglio 12 biopsie) ed è una manovra invasiva, non scevra da complicanze (16.7%) anche maggiori16, economicamente costosa, che comporta forti ripercussioni fisiche ed emozionali al paziente e ai suoi familiari. Pertanto è eticamente più corretto cercare di ridurre il già elevato numero di biopsie non necessarie (circa il 75%)11 che oggi si eseguono utilizzando il cut off di 4 ng/ml.
Allo scopo di ridurre il numero di esami istologici inutili sono impiegati nella pratica clinica corrente le forme molecolari del PSA (il rapporto tra PSA libero e totale) e sono presi in considerazione alcuni parametri quali età del paziente, volume prostatico ed evoluzione nel tempo del marker.
Il PSA circola nel sangue principalmente complessato a degli inibitori delle proteasi e solo in minima parte è presente in forma libera. La percentuale di quest’ultima è più bassa nei pazienti con CaP e pertanto è utilizzabile nel discriminare i soggetti candidati alla biopsia. È stato dimostrato, infatti, che il rapporto PSA libero e totale migliora la specificità del marker, riducendo così il numero di pazienti falsi positivi. Non esiste però un cut off generalmente accettato e i valori soglia proposti sono dal 14% al 28%6.
Una revisione della letteratura più recente ha rilevato otto studi, che hanno arruolato complessivamente 1.549 pazienti. Tali studi dimostrano, con forte evidenza scientifica, che esiste una differenza in termini di dimensioni ghiandolari tra soggetti con IPB (prostate più voluminose) e CaP (ghiandole più piccole)17. Purtroppo al volume prostatico non si associa un valore soglia di riferimento e può essere quindi solo un dato indicativo.

Età del paziente e valore soglia

La prevalenza dell’IPB aumenta con l’avanzare dell’età, pertanto nei pazienti più anziani la probabilità che il valore del PSA sia legato all’iperplasia è maggiore. In passato sono stati fissati cut off del PSA più alti per decadi di età più avanzate, ma l’applicazione rigida dei valori soglia aumenta il rischio di non diagnosticare delle neoplasie significative nei pazienti sopra a 60 anni con lunga aspettativa di vita. Pertanto, analogamente al volume prostatico, l’età può fornire solo un’indicazione di massima all’esecuzione della biopsia prostatica.
Il tessuto neoplastico si duplica più velocemente di quello iperplastico, pertanto il PSA aumenta 10 volte più velocemente in caso di tumore. È stato calcolato un cut off 0.75 ng/ml di incremento annuo del marker per differenziare le patologie benigne da quelle maligne, ma se in presenza di una neoplasia accertata la velocità di crescita del PSA si è rilevata un ottimo ausilio per determinare l’aggressività del tumore18, per la diagnosi differenziale con l’IPB e le prostatiti questo dato è risultato meno utile, per la variabilità di produzione del marker caratteristica di queste patologie17.
D’altro canto nella pratica clinica la variazione nel tempo del PSA è un’informazione molto utile da tenere in gran conto, perché le diverse patologie hanno andamenti differenti: il CaP tende a crescere continuamente, l’IPB tende a crescere lentamente o a rimanere costante con ampia variabilità dei valori da un controllo all’altro e le prostatiti presentano una crescita subitanea elevatissima in fase acuta a cui può seguire un rialzo stabile del marker.

Alcuni suggerimenti in sintesi

Alla fine di questa disamina dei problemi legati al dosaggio del PSA e alla luce delle conoscenze attuali che, come già affermato, potrebbero cambiare anche nell’immediato futuro, possiamo sintetizzare alcuni suggerimenti:

Quando dosare il PSA

• Nel paziente con sintomi delle basse vie urinarie o con sospetto anche minimo di CaP (per esempio esplorazione rettale sospetta) che possa trarre giovamento da una terapia per la neoplasia prostatica (aspettativa di vita di circa 10 anni).
• Nel paziente asintomatico che richieda espressamente di sottoporsi all’esame, dopo averlo informato esaustivamente dei rischi che il dosaggio comporta (esecuzioni di inutili biopsie prostatiche ripetute, ansietà legata a frequenti dosaggi del marker, possibilità di sottoporsi a trattamenti con importanti ripercussioni fisiche e psicologiche per malattie che potrebbero non manifestarsi nel corso della vita).

Come standardizzare il dosaggio

• Evitare il dosaggio dopo biopsie prostatiche, uretrocistoscopia, massaggi prostatici, intensa attività fisica o in corso di infezioni delle vie urinarie. A scelta, consigliare l’astinenza sessuale prima del prelievo.
• Utilizzare laboratori che seguono uguali procedure e metodi di analisi.
• Effettuare sempre una seconda misurazione in caso di valore alterato e, nei casi più dubbi, eseguire un dosaggio ripetuto a distanza di pochi giorni per evidenziare eventuali artefatti di misurazione.

Come interpretare il valore del PSA

• Considerare ancora 4 ng/ml il cut off di normalità, ma applicare questa regola con elasticità ponendo attenzione a valori inferiori (>2.5 ng/ml) in pazienti giovani (cinquantenni), con parente di primo grado a cui è stata diagnosticata una neoplasia prostatica in età non avanzata o con dosaggi in rapida e costante ascesa, e stimare come possibilmente normali dati superiori nei soggetti anziani (>70-75 anni).
• In caso di prostate voluminose ritenere più probabile che l’alterazione del PSA sia dovuta a patologia benigna.
• Sospettare la presenza di CaP nei pazienti con PSA 2.5-10 ng/ml e rapporto libero/totale inferiore a 15-25%.
• Valutare l’andamento nel tempo del marker, considerando un anno l’intervallo minimo per giudicare la variazione
del valore, ponendo particolare attenzione ai pazienti con tempi di raddoppiamento inferiori a tre mesi o aumenti >2 ng/ml/anno e ritenendo viceversa più probabilmente affetti da patologia benigna coloro che presentano PSA elevati, ma costanti o altalenanti.
• In conclusione, non esistendo certezze diagnostiche, la decisione di considerare un valore del PSA alterato, inviando quindi il paziente a biopsia prostatica, deve essere ritagliata sul singolo individuo, tenendo in considerazione tutte le variabili citate.

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