M.D. numero 17, 11 maggio 2005

Diario ambulatoriale
Il lavoro in team in medicina di famiglia - Cronaca di una settimana
di Giuseppe Maso, Medico di famiglia - Venezia, Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia
Università di Udine
Alessandra Semenzato, Infermiera di famiglia - Venezia, Docente Scuola di Medicina di Famiglia
Università di Udine

Luned́
Vediamo sempre più spesso grandi vecchi allettati, assistiti a domicilio.
Quasi sempre si tratta di dementi con sindrome da immobilizzazione, cateterizzati, incontinenti, in politerapia. Sono persone che hanno bisogno di assistenza continua, per cui qualcuno deve essere sempre accanto a loro. Questo compito richiede energie fisiche, ma comporta anche un grande coinvolgimento emotivo per i familiari. Si mettono in moto i più vari meccanismi psicologici; spesso vediamo sensi di colpa, depressioni e rottura di consolidati equilibri. Il quadro che ci appare quando entriamo in queste case è quasi costante: una persona, alla fine della sua esistenza, su di un letto metallico con spondine fornito dal Sistema sanitario nazionale, posto al centro della stanza, come un altare; un sacchetto raccoglitore di urine appeso al letto, pacchi di pannoloni e traverse vicino al muro e, sopra a un tavolino, un’infinita collezione di scatole di farmaci e disinfettanti. La stanza è avvolta da un odore particolare, tipico, un miscuglio di odori di urina, disinfettanti, alcol e feci. I parenti, come delle vestali in un tempio, sono dedicati al mantenimento in vita di una fiamma, destinata inevitabilmente a spegnersi. Entriamo con rispetto in questo tempio e ci inchiniamo alla sofferenza di chi è assistito e di chi assiste.

Martedì


Il benessere e la possibilità di accesso alle strutture sanitarie da parte di tutti hanno certamente contribuito in modo eccezionale al prolungamento della vita media. In questi ultimi decenni, il concetto di prevenzione è entrato nel modo di pensare e agire dei sistemi di cura, dei singoli medici e infermieri e dei pazienti stessi.
Oggi ci siamo soffermati su questo aspetto della nostra professione e ci siamo resi conto, ancora una volta, che il fulcro reale della prevenzione è la medicina di famiglia. L’accesso alle cure, le possibilità terapeutiche e diagnostiche, così come le conoscenze scientifiche, sono solo degli strumenti della prevenzione. La prevenzione esiste e funziona solo se esiste una particolare disciplina: la nostra. Sta proprio nella continuità assistenziale (la cura da parte degli stessi professionisti) il vero segreto. Siamo sicuri che non si fa prevenzione su popolazioni per allungare la vita dei singoli, ma si fa prevenzione sul singolo per allungare la vita alle popolazioni. Le abitudini e gli stili di vita, la cura delle malattie croniche e la diagnosi precoce si può fare solo agendo sulla singola persona.
Questo si ottiene con un rapporto di fiducia e con la conoscenza della famiglia e dell’ambiente di ogni uomo o donna. Si ottiene con un rapporto continuo e intimo che possa incidere sulla sfera psicologica. Si ottiene con una diffusione capillare sul territorio e con l’applicazione quotidiana, su larghissima scala, delle conoscenze specialistiche, da parte di medici e infermieri preparati. È un lavoro continuo, costante e difficile, noi ce ne rendiamo conto ogni giorno.

Mercoledì

La solitudine è una condizione che riguarda una parte sempre più ampia dei nostri assistiti. Sempre più spesso sono le fasce più deboli a esserne interessate. Ad essa, talvolta vi si accompagna la povertà. E quando vi si associa anche una patologia psichiatrica, ci si accorge che il vuoto è tangibile poiché mancano le strutture in grado di dare risposte concrete al disagio e alla sofferenza di queste persone. Oggi la denuncia arriva da un nostro paziente di 53 anni, che dal 1992 ha iniziato a manifestare i primi sintomi di psicosi schizofrenica. Da allora è stato un lento peggiorare: ora è inabile al lavoro, fa terapia neurolettica depot ed è isolato dai fratelli. Questi ultimi, a suo dire, hanno un grande pregiudizio, per quanto riguarda la malattia mentale. Ne hanno paura, la percepiscono ancora come una colpa infamante.
Aldo è un omone gentile a cui piace dialogare con discrezione, che non accetta la solitudine obbligata. I vari centri di volontariato e di aiuto per persone coi suoi stessi problemi, non sembrano rispondere alla sua esigenza di sentirsi comunque considerato normale. Ogni volta che viene da noi per la prescrizione dei farmaci, non sa se avrà il denaro sufficiente per procurarseli. Ci confida così la sua umiliazione per non essere in grado di provvedere a se stesso, per la difficoltà che ha nel soddisfare le necessità di base. Si lamenta perché le strutture esistenti per le persone come lui non aiutano né a socializzare né a vivere dignitosamente nonostante questa patologia. Anche noi, tutto sommato, siamo impotenti di fronte a questo grave problema.

Giovedì


Anche oggi un paziente cambierà medico perché ci siamo rifiutati di certificare una malattia inesistente. È desolante verificare come per una parte della popolazione il medico di famiglia sia soltanto una figura cui chiedere qualsiasi cosa, chiedere tutto ciò che è possibile ottenere da un sistema da sfruttare.
Per questa parte di popolazione non siamo dei professionisti, ma dei fornitori di servizi a domanda. Non possiamo mettere in discussione richieste che riteniamo inutili o, peggio, immorali. Assistiamo quotidianamente a richieste di prestazioni e certificazioni che servono soltanto a ottenere il massimo rimborso da una compagnia assicurativa o, impotenti, dobbiamo lottare contro pretese di cure riabilitative, le più varie, per famiglie intere.
Oggi la moglie di un nostro assistito, affetto purtroppo da una neoplasia in fase avanzata, ci è venuta a chiedere dei farmaci analgesici maggiori. Non aveva trovato il medico di riferimento in oncologia e alla nostra richiesta di avere informazioni sullo stato della malattia, di conoscere il risultato degli ultimi accertamenti e la terapia in atto, ci ha detto che non ha né tempo né voglia di mostrarceli.
Per molte persone la medicina di famiglia non ha la dignità delle altre specialità e viene percepita come una medicina di seconda serie.
Abbiamo le nostre colpe, ma crediamo anche che siano in molti ad avere interesse che la percezione della gente rimanga di questo tipo.

Venerdì


Ci ha telefonato la moglie di Gianni per raccontarci quanto è successo. Stamane abbiamo deciso di passare all’insulina per curare il diabete di suo marito. Gli antidiabetici orali non erano più sufficienti, per cui abbiamo spiegato a Gianni il motivo della nostra scelta terapeutica, gli abbiamo consegnato un glucometro, gli abbiamo insegnato a usarlo e gli abbiamo insegnato ad autosomministrarsi l’insulina. Ci sembrava che tutto fosse andato liscio e che il paziente avesse compreso e condiviso i motivi di quanto avevamo deciso di fare. Quando è arrivato a casa, come un bambino, ha buttato tutto sulla tavola ed è fuggito, scappato per i campi. La moglie è andato a recuperarlo, come una mamma, dopo qualche ora.
La via di somministrazione di una terapia è importante per la percezione di malattia: se la terapia è iniettiva la malattia deve essere più importante di quella che si cura con pillole o uno sciroppo. Gianni non credeva di essere ammalato, fino ad oggi.

Sabato

Rosa ha una pressione arteriosa non compensata da più di tre mesi, nonostante la politerapia. Ha eseguito gli esami di routine, abbiamo dosato elettroliti e ormoni, ma siamo al punto di partenza. Abbiamo deciso che probabilmente la cosa migliore era quella di ricoverarla nel sospetto di un’ipertensione secondaria da accertare.
Ma nessuna struttura ha accettato il ricovero e la paziente è stata affidata a un ambulatorio per l’ipertensione. Ovviamente, la collega che segue la signora ha le stesse armi terapeutiche che abbiamo noi; il problema persiste e la pressione non è assolutamente compensata. Quando ci sono le crisi ipertensive, tachicardia, ansia, senso di soffocamento, Rosa si rivolge a noi. Si lamenta perché neanche la specialista, pur avendole assicurato il risultato della terapia stabilita, dicendo: “questa pressione deve scendere”, è riuscita a stabilizzare la sua pressione. È una situazione che si ripete spesso, succede per i diabetici che vengono affidati ai centri, per le donne in menopausa o per i cardiopatici seguiti a loro volta da specialisti. Viene fatto intendere che una patologia cronica possa essere seguita meglio da uno specialista. Ma non è così, la specialistica deve rimanere tale e non dovrebbe fare medicina di primo livello. Lo specialista dovrebbe essere sempre consulente del medico curante e non del paziente. Quando non è così, si creano grossi problemi di gestione; la figura del medico di famiglia viene screditata, ma soprattutto si crea disorientamento nel paziente che non capisce più chi sia il referente per la sua malattia.
Rosa si rivolge a noi, ma ha già fissato un appuntamento per il prossimo controllo presso l’ambulatorio per l’ipertensione. Ma tra un appuntamento e l’altro chi si fa carico di lei? Se dobbiamo farcene carico noi è ovvio che possiamo farcene carico sempre. Ma Rosa ora è in grado di decidere chi la deve curare?