M.D. numero 16, 4 maggio 2005

Counselling
La gestione della malattia grave
di Ivano Cazziolato - Medico di medicina generale, psicoterapeuta, Marcon (VE), Dipartimento di Neuroscienze AIMEF

Se da un lato per il medico di famiglia accompagnare il paziente fino alla morte può essere frustrante, dall’altro può diventare un’esperienza importante se è il medico stesso ad accettare la propria impotenza, se riesce a fare i conti con il proprio vissuto e se è in grado di adottare il giusto approccio con la rete familiare e sociale che partecipa alla cura

La gestione della malattia grave richiede un approccio di tipo interdisciplinare. Al medico che si prende cura del paziente morente si richiede una consapevolezza all’approccio sanitario differente rispetto a quando egli si occupa delle fasi precedenti della malattia.
Il medico si deve porre nell’ipotetico asse cartesiano della cura, sul piano orizzontale e non verticale, vale a dire sullo stesso piano dell’infermiere e degli altri operatori sanitari, prendendosi il ruolo di chi assiste.
Un pregio della medicina palliativa è che prende in gran considerazione il ruolo della famiglia, le relazioni familiari, gli affetti del paziente e si occupa molto dell’assistenza dei familiari.
C’è una dicotomia e una linea di confine tra prima e dopo, tra medicina interventista e medicina palliativa. Il passaggio dall’una all’altra come deve essere letto?
Sembra un passaggio unidirezionale: da quella interventista a quella palliativa, difficilmente si può pensarla in senso opposto. La lettura che ne è fatta, è una lettura di sconfitta della medicina interventista o una lettura d’opportunità per la medicina palliativa, in altre parole quella di occuparsi dell’uomo malato e non della malattia, dei suoi affetti e della sua famiglia? Sembra che queste due colonne siano destinate all’incomunicabilità, perché il flusso degli eventi avviene a senso unico:

intervento-fallimento dell’intervento-cura palliativa

Come dire che se sei ancora dentro alla “medicina interventista” puoi nutrire qualche speranza che si facciano delle cose nella direzione che guarda alla guarigione, mentre entrare nell’ambito della medicina palliativa significa imparare a tollerare la fine degli atti medici che penetrano il corpo, lo trapassano, lo trasformano, lo sfiniscono, per entrare in un’altra dimensione, quella del piano emotivo. Queste due dimensioni sono tenute distinte. I medici che lavorano negli ospedali “consegnano” i malati terminali, ai quali non possono più fare nulla, ad altri “medici-monatti”: quelli delle cure palliative. I monatti erano personaggi temuti durante le epidemie di peste, come nel romanzo di A. Manzoni, I promessi sposi. Erano temuti anche dai signori, perché la malattia non conosceva né caste né ricchezze né privilegi: né più né meno di quanto accade oggi.
C’è una bella quota di frustrazione nel medico che si arrende alla potenza della malattia, ma si arrende veramente o nega quella parte di sé che dovrebbe fare i conti con l’impotenza? Come la mettiamo poi con i conti che dovrebbe fare con le proprie parti emotive? È pronto e preparato ad affrontarle? C’è una negazione della “persona malata” nel momento in cui è avvenuto il passaggio del paziente alle cure palliative? In questo medico cosa prevale? Il senso di sollievo per il passaggio avvenuto di un paziente che non rispondeva più ad alcuna terapia (quindi sollievo per una minore frustrazione) o una sensazione d’alleggerimento per quel disagio espresso dalle inevitabili quote emotive del paziente e dei suoi familiari?

Adattamento ed equilibrio della famiglia

Ogni famiglia ha un proprio equilibrio ed essendo un insieme unitario è dotata di una sua omeostasi (termine introdotto da WB. Cannon per indicare la tendenza a mantenere il proprio equilibrio e a conservare le caratteristiche morfologiche e fisiologiche contro gli squilibri che possono essere determinati da variazioni interne estreme che, qualora non venissero compensati, comporterebbero la disintegrazione dell’organismo stesso).
Se avviene un cambiamento all’interno della famiglia che ne minaccia l’omeostasi, come per esempio la malattia di un suo componente, tutti i membri si adopereranno per ristabilire l’equilibrio precedente.
La salute della famiglia è rappresentativa della sua flessibilità, in altre parole della sua capacità di adattarsi ai cambiamenti. Quando in una famiglia entra la malattia, quell’evento riguarda non solo la persona colpita, ma anche tutti i suoi membri.
Vi sono cambiamenti importanti all’interno della famiglia quando la malattia prende la scena:
- sovvertimento dei ritmi quotidiani e delle regole preesistenti;
- perdita del ruolo sociale o professionale del soggetto;
- inversione dei ruoli: per esempio la persona malata che può aver avuto un ruolo dominante in famiglia, si trova in una posizione di dipendenza e la famiglia sarà costretta a cercare un altro punto di riferimento;
- la malattia stessa comporta un passaggio dall’indipendenza alla dipendenza;
- possono insorgere difficoltà economiche legate alle spese che s’incontrano nella gestione della malattia, per i ricoveri ospedalieri, per gli ausili necessari, per l’assistenza stessa.

Diverse fasi familiari


C’è una “fase di shock” che paralizza i meccanismi di difesa, poi una “fase di negazione”: questa è la fase dei consulti con altri medici per l’incredulità sulla diagnosi, ma anche nella speranza di una “sconferma” o di una prognosi più favorevole. C’è poi la “fase della disperazione” dove emergono vissuti di tristezza e di paura per l’imminente perdita, una “fase rielaborativa” con atteggiamenti che possono andare dall’iperprotezione all’atteggiamento distaccato. C’è una “fase d’accettazione” dove le difficoltà sono affrontate per essere superate. Infine, la “fase del lutto” è quella che segue al decesso.

Stili relazionali familiari

Possiamo definire con S. Minuchin:
1. Famiglie disimpegnate che sono caratterizzate da:
• estrema caoticità
• ruoli molto rigidi
• esasperata individualizzazione.
2. Famiglie invischiate che sono caratterizzate da:

• confusione di ruoli
• conflitti sopiti
• minimi stimoli all’autonomia
• assenza di confini generazionali
• iperprotezione e ipercoinvolgimento
• rigidità verso l’esterno.
3. Famiglie a funzione flessibile che sono caratterizzate da:
• buon supporto sociale
• buona capacità di coping (sforzi cognitivi e comportamentali tesi a dominare, ridurre, tollerare le esigenze determinate dalla situazione di stress) a eventi stressanti precedenti
• capacità d’adattamento
• intimità e coesione
• assenza di importanti conflitti
• possibilità di esprimere le emozioni.
Individuare il tipo di struttura familiare ci consente un intervento più congruo, poiché conosciamo gli stili e gli orientamenti dei suoi membri. Il medico di famiglia sperimenterà minori difficoltà quando si troverà di fronte a una famiglia a funzionamento flessibile.

Triangolo terapeutico


Nel sistema familiare, i giochi di vicinanza e distanza prendono la configurazione di un triangolo che può essere definito come un rapporto a tre direzioni: due persone sono vicine e una è lontana. Un triangolo può essere costituito da gruppi di persone, da persone o da cose. In situazioni di tranquillità, due membri del triangolo costituiscono un’alleanza piacevole che vede il “terzo” un po’ sfumato. Il terzo, proprio perché escluso, cercherà di conquistare uno dei due elementi. Quando invece vi è una situazione di tensione tra i due membri, saranno loro a cercare di coinvolgere il “terzo” per diluire l’ansia contenuta nel rapporto. Un esempio di triangolo nella famiglia è composto di padre-madre-figlio, un triangolo classico è composto di marito-moglie-amante; un triangolo sociale è composto di polizia-delinquente-vittima.
Il sistema famiglia con l’ingresso della malattia si allarga per includere la figura del medico. La famiglia curante è pure ammalata ed è investita dalla paura di ciò che accadrà dopo. In questo caso, visto l’alto livello d’ansia, è probabile che si creino alleanze e coalizioni.
Saper distinguere tra alleanza ed esclusione può permettere al medico di famiglia di comprendere il tipo di relazione tra comportamenti per poter intervenire.
- Alleanza terapeutica ristretta: tra curante e paziente; la famiglia ne è esclusa.
- Rifiuto terapeutico: tra famiglia e paziente; il medico è escluso. Questo avviene soprattutto nella malattia grave oncologica (tipico, in questo caso, è il ricorso alla medicina alternativa).
- Collusione di terzi: tra famiglia e medico curante; il paziente è escluso. Tipico della situazione terminale.

Conclusioni


Accompagnare il paziente durante il decorso della malattia grave fino alla fine non è semplice per il medico di famiglia e gli operatori sanitari che spesso non hanno ricevuto un’adeguata formazione. Rimane però un’esperienza che può diventare gratificante se per primo è il medico ad accettare la sua impotenza, se è riuscito a fare i conti prima con i propri vissuti di morte e le proprie paure, se è in grado di adottare la giusta vicinanza e la giusta distanza dalla persona morente, dai suoi familiari, dalla rete sociale che partecipa alla cura.

Riflessioni


Una sera, di ritorno da una cena, una cara collega di Torino mi raccontava - lei che ormai vedeva non molto lontana la pensione - che passando per le strade della sua zona, le tornavano alla mente i nomi, i volti, le storie, le famiglie, i vissuti di tutti quelli che in tanti anni di professione aveva accompagnato alla morte.
Lo raccontava con animo sereno, con un velo di tristezza, ma anche con la consapevolezza di averlo fatto bene.
Lei è una delle tante testimonianze di medici che possono fare bene il proprio lavoro, smettendo di negare tutta quell’area dei ricordi e delle emozioni legate al morire, che, al sapere tecnico, antepongono il sapere umano.
Un gruppo di medici di famiglia sta creando iniziative su questi temi. Chi volesse partecipare attivamente per eventi formativi, suggerimenti, confronto, incontri, può scrivere all’indirizzo: ivanocazziolato@libero.it